Capitolo 24. Anime Perse - Francesco Motta

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Una lunga striscia spessa come il binario di un treno.

Rossa.

Piena di fili ritti e neri come aculei di riccio, che attraversavano la mia scapola. Potei sfiorarla con la mano destra, appena potei mettermi seduta, tra i cuscini sottili del letto dell'ospedale. Sentii distintamente i punti di sutura che percorrevano la mia spalla ossuta e indebolita. Avevo le labbra secche per la disidratazione, la pelle del viso tirava da ogni lato.

Il sinistro.

Il lato sinistro era insensibile, coperto da bende che mi erano state cambiate la prima volta dopo quarantotto ore. Avevo sentito il mio battito accelerare, il dolore intollerabile, le costole bucarmi lo sterno. La voce sfinita dal pianto. Poi niente, morfina, altri antibiotici, e tornavo a dormire.

Nicla era alla finestra, con me nella stanza: guardava da un'altra parte quando mi medicarono la prima volta, la mano sulla bocca per non emettere alcun suono.

Nicla non mi lasciava mai. Usciva solo per tornare in albergo a cambiarsi, nascondendosi volto e capelli dai curiosi, nascondendosi da chi potesse riconoscerla, e papà le dava il cambio solo il tempo necessario, stava con me prima che lei tornasse. Le regole post covid portavano ancora gli stralci che avevano attraversato la pandemia negli ultimi anni. Non erano permesse più di due persone per assistermi. Osservai mio padre con l'occhio libero sedersi sulla sedia accanto al mio letto, portandosi un libro sottobraccio.

"Ciao, piccola peste."

"Ciao, papà." Dissi, con un filo di voce piatta. Potevo muovere appena la testa, scrutare nei suoi occhi la serenità che cercava di trasmettermi. Mi lisciò la mano, quella libera dagli accessi venosi, e guardò un punto indefinito sulla mia pancia. Stavo scomparendo dentro quel lenzuolo.

"Hai queste bellissime mani, guarda che mani da pianista."

"L'hai portata?" chiesi, facendo uno sforzo estremo, prendendo un ampio respiro.

"Sì." Annuì impercettibilmente, e dalla sua borsa a tracolla tirò fuori una piccola cassa da collegare al bluetooth del telefono. Collegò i due dispositivi e cercò la frequenza di Radio Freccia, tenendola a un volume basso, perché i rumori forti mi davano ancora noia alla testa.

Dissero che avrei recuperato in fretta l'udito, che l'orecchio destro era salvo. Era il sinistro che era scomparso sulla strada. Da una prima ricostruzione, pare che il filo dell'auricolare si fosse incastrato sul manubrio e che nell'urto con l'auto fossi stata trascinata per diversi metri verso sinistra. Nessuno l'aveva vista arrivare, svoltare l'angolo verso di me, mentre mi immettevo sulla strada principale. Il volto era una specie di maschera di cera, l'occhio sinistro era salvo ma ridotto male, a quanto dicevano, e le ferite sarebbero guarite, con un po' di pazienza e un po' di chirurgia. Sarei potuta tornare quasi come ero prima. Era quel quasi che mi fregava. Pensai come un déjà-vu a quella risposta che Dino aveva scritto sotto al commento di una specie di fan, quella sera. La sera che aveva conosciuto i miei amici. Sembrava un secolo fa. Quanto desiderai tornare indietro, riavvolgere il nastro a quella sera.

Sentii pizzicare gli occhi, tirai su col naso.

"Tutto bene, tesoro?"

Noel Gallagher, dalla cassa, diceva di catturare una stella cadente per brindare a giorni migliori, di seguire i consigli del cielo. Mi cullai su quelle note, tornando a dormire.

Dino aveva richiamato Emma, che, dopo avergli dedicato una serie di improperi come era sua abitudine fare per non averle risposto subito, gli aveva raccontato dell'incidente. Immaginavo la faccia di Dino dall'altra parte, mentre, con la pazienza che lo contraddistingueva, attendeva la fine delle ingiurie della mia amica per ascoltare finalmente il messaggio importante che aveva da dirgli. Non ci aveva pensato due volte, aveva lasciato l'appartamento messo a disposizione dalla casa discografica, dimenticandosi mezza valigia aperta sul letto. Il suo produttore lo aveva fermato, dicendogli che aveva un contratto ancora da firmare e che andarsene adesso sarebbe stato molto rischioso per la sua carriera, che era un treno che passava una sola volta nella vita, e nemmeno nella vita di tutti.

Emilia Koll - Il velo sul visoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora