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DISCLAIMER: non ho la più pallida idea di come funzioni il sistema giudiziario italiano per cui in questa storia fingeremo tutti di trovarci negli USA perché adopererò la mia conoscenza basata sulla serie TV "Bull". (Ergo, quando troverete procuratori, giudici e giurie, sappiate che siamo in Italia ma in realtà non lo siamo, ok? Ok.)

Se volete commentare su Twitter, c'è l'hashtag #simuelinlaw (grazie Nic). Grazie.






Il tribunale è un luogo stranamente silenzioso. Manuel Ferro, avvocato da ben tre anni, ha sempre ritenuto curioso il modo in cui tutti, in quell'edificio, strepitino, si sbraccino, scalpitino pur di far sentire la loro voce, finendo però per creare un ambiente tanto silente da riuscire a snervarlo. Detesta l'apparente assenza di vita che caratterizza i corridoi, detesta il suono delle scarpe — sempre così eleganti al punto da essere talvolta fuori luogo — che colpiscono ritmicamente il pavimento producendo un fastidiosissimo clip-clop che lo distrae dal ripasso di qualsiasi arringa che si stia tenendo nella sua mente, detesta il rossetto rosso applicato con estrema — quasi maniacale — precisione sul volto delle sue colleghe, messo lì un po' come un ulteriore promemoria del fatto che loro sono gli avvocati, e tutti gli altri — i clienti — sono soltanto burattini nelle loro mani.

È una visione che Manuel detesta. La detesta quasi quanto la cravatta che è costretto ad indossare ogni giorno, quanto il fazzoletto da taschino che alcuni suoi colleghi si ostinano a portare con orgoglio, come se un'aula di tribunale fosse una passerella e non un luogo di lavoro.

E detesta il caffè perennemente freddo e privo di sapore che il camioncino che funge da bar posto fuori al tribunale gli propina ogni mattina e, soprattutto, detesta il fatto che non riesca a non fare tardi così da potersi permettere un caffè decente.

È più forte di lui, proprio non riesce a seguire una routine, uno schema, qualsiasi cosa, insomma, che possa aiutarlo ad uscire di casa in tempo per potersi concedere una colazione che lo aiuti a non odiare il mondo e la vita.

Quella mattina, in cui una sottile pioggerellina adorna le strade di Roma, non è differente.

Manuel forse detesta anche la pioggia, nonostante ami l'inverno, detesta quell'espresso e —

«Un cappuccino! Per favore, sono di fretta.»

Simone Balestra.

Non crede che possa esistere una persona al mondo che detesta più di Simone Balestra, sua personale nemesi, reincarnazione di tutto quello che lui più disprezza, di tutto ciò che lui proprio non vorrà mai essere, mai diventare.

«Eh, perché noi stamo qua a pettina' 'e bambole, ve'?» si trova a borbottare, dietro il suo bicchiere di carta ripieno di quel liquido nero dal dubbio sapore, prima di riuscire a fermarsi.

Non è colpa sua, dopotutto, se in presenza di Balestra il suo filtro bocca - cervello subisce un repentino arresto.

È però colpa di Balestra, invece, se ora lui avverte il desiderio di piazzare un bel pugno ben assestato su quel faccino sbarbato — come l'ha più volte definito, protetto dalla privacy della sua mente — all'incirca cinque secondi dopo.

Simone infatti si volta verso di lui, mentre il suo cappuccino viene preparato e non lo degna neppure di uno sguardo.

«Sento un rumore... fastidioso, eh?» mormora, rivolgendosi a Giulio — suo collaboratore —, a voce tanto bassa da non essere sentito da tutti gli altri presenti, ma abbastanza alta perché a sentirlo sia lui.

«C'ho troppe cose da fa' per perdere tempo con te e le tue stronzate oggi, Bale'.» decide di rispondere.

«E non ne vale manco la pena, per inciso.» precisa, prima di buttare via il bicchiere ora vuoto ed avviarsi all'interno del tribunale.

(Law)suit and tieDove le storie prendono vita. Scoprilo ora