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Manuel perde. Perde e vorrebbe non dover mettere più piede in tribunale per il modo in cui Simone e la squadra del procuratore lo trattano durante il processo.

Si sente così umiliato dagli sguardi dell'altro ragazzo e del suo assistente che quasi inizia ad essere grato per quel giovedì di Marzo in cui con una semplice e-mail gli fu negato il posto di assistente procuratore.

Meglio lavorare da solo che con una squadra del genere, si ritrova a pensare più e più volte.

Sa che dovrebbe essere dispiaciuto per aver deluso la sua cliente. Sa che dovrebbe non pensare affatto, in realtà. Perché è tutto banalmente parte del lavoro e lui non può lasciarsi così tanto coinvolgere, così si arrabbia.

È terribilmente arrabbiato con sé stesso. Furioso.
Perché la verità, per quanto si sforzi di negarla al mondo intero — che si riduce alla sua persona e Matteo —  è che è tutta colpa di Simone Balestra.

Dei suoi capelli ricci così dannatamente perfetti e dei suoi vestiti che sembrano cuciti su un manichino e delle sue cravatte che sembrano finte — ché lui, in quasi trent'anni di vita non è mai riuscito a tenere in ordine una cravatta e quelle di Balestra sembrano di marmo —, delle sue mani che si muovono seguendo il ritmo delle sue parole ogniqualvolta le usa per distruggerlo, in aula e fuori.

Simone Balestra ha il potere di distruggerlo e lui non può farci niente e per questo lo odia.

Odia il fatto che sia sempre puntuale e che gli riservi sempre uno sguardo torvo quando si ritrova al banco dell'accusa, odia la sicurezza con cui approccia ogni testimone, odia il modo in cui vince, sempre e comunque, ad ogni tipo di gioco, contro di lui.

Odia il suo dopobarba, che gli ricorda della casa di campagna di sua nonna, quella in cui sua madre lo portava da bambino. Odia il fatto che nemmeno sa come sia possibile che un dopobarba profumi di casa di campagna. Non è possibile. Eppure gli basta ritrovarsi chiuso in ascensore con Simone Balestra per avere di nuovo cinque anni, la mano stretta in quella di sua madre, nessun pensiero a turbare la sua felicità e l'abbraccio di sua nonna pronto ad attenderlo.

Ed odia il telefono che squilla in quel preciso istante, in uno di quei momenti in cui ha gli occhi chiusi e si trova sulla soglia di casa di sua nonna e la donna sta per abbracciarlo e se si concentra abbastanza riesce a sentire anche il suo profumo.

E odia il «Ferro, il cellulare.» che Simone borbotta, come fossero due sconosciuti.

«Seh.» mormora. È di nuovo Roma, tribunale, lavoro.

L'unica magra consolazione è un suono simile che dopo qualche secondo distoglie l'attenzione di Simone dai suoi lineamenti.

Manuel lo sente parlare, sibilare qualcosa a denti stretti, schiacciato nell'angolo opposto dell'ascensore, fin quando entrambi non terminano la rispettiva chiamata per finire a guardarsi negli occhi, immobili.

«Era Michele.» Simone dice, quasi bianco come un cubetto di gesso, come se fosse scontato che Manuel conosca Michele.

Ed infatti il «e chi sarebbe? A me m'ha chiamato il procuratore.» del maggiore arriva appena qualche secondo dopo.

«Michele è il suo segretario.» Simone sussurra.

L'ascensore è ormai arrivata a destinazione e loro, piuttosto che uscire e scendere le scale per lasciare il tribunale come persone normali, sono fermi accanto ad una colonna, fuori all'edificio.

«Mi interessa?» Manuel domanda cautamente, ancora sconvolto dalla conversazione appena avuta con l'uomo.

«Dimmi che t'ha detto Salvi.» — il procuratore.

(Law)suit and tieDove le storie prendono vita. Scoprilo ora