Pax et Bonum

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I mesi a venire e l'anno successivo sono un calvario.

Francesco sballottato tra l'Umbria, Marche, Lazio e Toscana a lasciarsi medicare, più veritiero sarebbe torturare, dai frati, superiori e amici che lo vogliono guarire. A dorso d'asino, camminare gli è oramai impossibile, bendato o incappucciato, è acclamato a furor di popolo dovunque si rechi. Reliquia vivente in una processione.

«Il santo!» inneggiano le moltitudine festose. «Il santo! Il santo!»

Il medico di Rieti lo sottopone a Fonte Colombo a un trattamento poco ortodosso. Angelo ne è poco convinto. Cauterizzare gli occhi, le vene dall'orecchio al sopracciglio. Interromperà, spiega, il flusso di umori maligni che si riversano nei bulbi di Francesco.

Il suo strumento un ferro rovente. Angelo e i frati arretrano alla vista delle pinze incadescenti, scaldate sulle braci.

Francesco sorride.

«Fratello fuoco.» l'appella dolcemente. «Ti prego di mitigare la tua irruenza. Potresti non arrecarmi dolore?»

Il fuoco, o Dio, mantiene la promessa. Il ferro aggredisce la pelle, ma Francesco non geme, zero lamenti strazianti. Serra le palpebre e continua imperterrito, misterioso, a sorridere, una sorta di custode di quel patto innaturale.

Lo conducono alle Celle di Cortona, fiduciosi che possa trovare refrigerio, a Firenze, Roma, Siena. Il Cardinale Ugolino consulta qualsiasi luminare, mani in pasta ovunque, agganci a non finire. A Siena, una notte, accusa sbocchi di sangue talmente violenti da indurre i frati a crederlo sull'uscio dell'altro mondo.

È presto, fortunatamente, e il mancato trapasso fornisce a Francesco un buon pretesto di scrittura.

«Un testamento.» comunica ad Angelo. «Il mio lascito ai frati.»

«Ne sei sicuro?»

«Sicurissimo. Scrivi che benedico tutti i miei frati, che sono ora in questa Religione e quelli che vi entreranno fino alla fine del mondo. E siccome, a motivo della debolezza e per la sofferenza della malattia, non posso parlare, brevemente manifesto ai miei frati la mia volontà in queste tre parole. Cioè: in segno e memoria della mia benedizione e del mio testamento, sempre si amino gli uni gli altri, sempre amino ed osservino nostra signora la santa povertà, e sempre siano fedeli e sottomessi ai prelati e a tutti i chierici della santa madre Chiesa.»

Amore. Povertà. Obbedienza. Non sono parole nuove. Il modello della prima Regola, la non bollata, la Regola che ha dovuto ritoccare. I perni della sua persona e dell'Ordine. Amore. Povertà. Obbedienza.

A nominare regola guarda un po' te se non doveva manifestarsi Elia, incuriosito dallo scribacchiare spedito di Angelo.

«Che state facendo?»

«Sto dettando il mio testamento.» lo pone al corrente Francesco, sorridendo birichino. Quello è, un comune testamento, le sue ultime disposizioni.

Origliare dev'essere una specialità di Elia. «Ti ho sentito pronunciare le medesime citazioni evangeliche inserite nella prima bozza.»

Bozza, non Regola. Angelo s'infila, tossendo.

«Vorresti impedire a un moribondo di tramandare le sue ultime volontà Elia?»

Lo prende alla sprovvista. Il Ministro Generale s'imporpora d'imbarazzo. «No, ovviamente no.» Mentalmente gli starà dando del furbastro. Quello che ha gettato dalla porta Francesco riesce a farlo rientrare dalla finestra.

Magari fosse l'ultimo episodio in cui Elia contesta e brontola!

In autunno le condizioni di Francesco peggiorano. Ritorna ad Assisi sotto scorta armata del Comune, per impedire che, se dovesse spirare in viaggio, i perugini si possano appropriare del prezioso corpo.

Il canto del sole e della lunaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora