12-trauma

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"Qualcuno la fuori diceva:《non aver paura di chi ti odia,ma fai sempre attenzione a chi fa finta di amarti》
metti il cuore in tutto ciò che fai,ma fai attenzione che la fuori la gente è abituata a spezzarlo"

Simone Carponi

Ivory

Perché le azioni degli altri ci
traumatizzano? Me lo ero chiesta tante
volte, ma non avevo mai trovato una
risposta convincente.

Forse perché, quando qualcosa ci
colpisce, è come se ci lasciasse un segno
invisibile che non possiamo cancellare.
Ricordo quel giorno a casa dei miei nonni
come fosse ieri.

Lei era li, una figura confusa tra il caos, e c'erano due ragazzi che si picchiavano selvaggiamente.
Gli amici intorno cercavano in tutti i modi di separarli, di calmarli, di fare qualcosa, ma sembrava tutto inutile.

Uno dei ragazzi si avvetò sull'altro con
una furia cieca, tirandogli i capelli e
urlando. Non riuscivo nemmeno a
distinguere le parole.

Erano troppe le urla, troppo il rumore.

Scappai.

Mi rifugiai nel bagno, chiudendomi dentro come se quella porta potesse proteggermi da tutto.

Le lacrime iniziarono a scendere prima ancora che potessi controllarle, e il cuore batteva così forte che sentivo quasi il petto esplodere.

"Dopo tutti questi anni, davvero un attacco di panico... per questo?" mi ripetevo, ma non serviva.

Non riuscivo a respirare. Ogni respiro si spezzava prima di arrivare ai polmoni, come se un nodo invisibile mi stringesse la gola.

La mia mente non smetteva di riprodurre la scena. Le urla, i pugni, gli sguardi carichi di odio... Non c'era via di fuga. Era tutto troppo, troppo caotico, troppo vicino.

Mi sentivo fragile, spezzata.

Quando finalmente trovai il coraggio di muovermi, presi una decisione rapida: tornare a casa.

Non potevo restare lì un secondo di più. Uscii dal bagno con il viso ancora bagnato di lacrime e mandai un messaggio ad Hardin.
"Puoi avvisare i professori? Sto male. Torno a casa."

Non aspettai neanche la sua risposta. Aprii la porta, uscii dalla scuola e iniziai a camminare. Il rumore dei miei passi era l’unica cosa che riuscivo a sentire, come se tutto il resto fosse stato soffocato dal caos nella mia mente.

Hardin

Hardin: "Hei Stellina, come stai?"

Aspettai qualche minuto, ma la risposta di Ivory non arrivò. La preoccupazione iniziò a farsi strada, così decisi di scriverle di nuovo.

Hardin: "Ti posso chiamare, Stellina?"

Questa volta la risposta arrivò subito. Breve, concisa.

Ivory: "Okay."

Non persi tempo. Componevo il suo numero mentre cercavo di calmare il mio cuore che batteva più veloce del solito.

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