Prologo

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"Nessuno può farti sentire
inferiore senza il tuo consenso"
Eleanor Roosevelt

Abraham

La sensazione di piacere era così intensa da sembrare una piccola rinascita. In quegli istanti tutto il resto svaniva, come se ogni pensiero, ogni preoccupazione si dissolvessero. Col tempo, però, mi sono reso conto che quei momenti non erano così essenziali come avevo sempre creduto. Mi ero illuso che il sesso fosse un antidoto contro il vuoto, quando in realtà era solo una distrazione temporanea, un’alternativa facilmente sostituibile, una parentesi che, alla fine, non portava alcun vero conforto.

Mi ritrovai a vivere quegli incontri come un'abitudine, senza alcun interesse per la persona che avevo di fronte. Tuttavia, ogni volta era come portarsi dietro una tensione costante, un disagio che non mi permetteva mai di rilassarmi davvero. Era come se fossi intrappolato nella necessità di compiacere, schiacciato da una sensazione di inadeguatezza che mi faceva dubitare di me stesso.

Fu solo quando lei si stancò di me che realizzai quanto fosse stato tutto fragile e superficiale. Il suo sguardo indifferente, il modo in cui mi liquidò senza alcun rimpianto, mi fecero capire che anche lei stava cercando qualcosa che non trovava, esattamente come me.

Rimasi qualche istante a guardare la porta chiudersi, poi il silenzio tornò a riempire la stanza. Sentivo una strana sensazione di vuoto, ma ormai ci ero abituato. Mi avvicinai alla finestra e osservai le luci della città, pensando a quanto fossero diverse da quelle del mio paese d'origine, un piccolo villaggio perso tra le colline dove le notti erano oscure e silenziose.

Qui, invece, tutto sembrava pulsare anche nel cuore della notte. Le finestre illuminate, le strade che ribollivano di vita, i rumori lontani delle auto e dei clacson. C'era qualcosa di affascinante in quel panorama, eppure mi sentivo come se fossi sempre un estraneo, uno spettatore in disparte.

Mi accorsi che ultimamente mi capitava spesso di fare paragoni tra la vita qui e quella di un tempo. Ricordavo il profumo del pane appena sfornato la mattina, il suono del vento tra gli alberi, le voci conosciute degli abitanti del villaggio. Qui invece tutto era veloce, effimero, come se ogni cosa fosse destinata a sparire nel momento stesso in cui accadeva. Mi domandavo se fosse stata una buona idea venire in città, abbandonare le radici e le abitudini per inseguire un sogno che ancora non riuscivo a definire.

Spesso mi ritrovavo a camminare da solo di notte, vagando per le strade senza meta, come se da qualche parte, dietro una curva, ci fosse una risposta che mi sfuggiva. Forse mi ero illuso che la città potesse offrirmi qualcosa che avevo sempre cercato, una libertà, una fuga dal passato.

Tatiana ci aveva raccolti dalla strada come due gattini sperduti e infreddoliti. Avevo otto anni, e Adilah, il mio fratellino, solo quattro. Da quel momento in poi, lei diventò la nostra famiglia. Era una donna silenziosa ma forte, che non aveva bisogno di spiegare le sue intenzioni o di riempire i nostri vuoti con promesse. Con lei non ci fu bisogno di parole inutili; forse sentiva che non ci fidavamo di termini come “famiglia” o “protezione.” Avevamo imparato, in quel breve tempo, quanto fosse facile venire abbandonati, dimenticati, lasciati indietro.

Eravamo marocchini in un quartiere di periferia dove nessuno ci guardava più di qualche secondo; e questo mi andava bene, preferivo non attirare l’attenzione. Anche oggi, cresciuto, rimango in disparte. Pochi amici, rapporti che mantengo distanti. Ho imparato presto a fare a meno dell’affetto, della vicinanza, come se fosse una scelta – anche se so che è più una corazza. Con gli amici sono evasivo: non parlo dei miei demoni, dei ricordi che si trascinano dietro me come ombre. Non sanno dei miei incubi, né della paura che, anche di giorno, torna a trovarmi quando meno me l’aspetto.

Adilah, invece, è diverso. Sorride con facilità, riesce a vedere Tatiana come la madre che non ha mai avuto. È riuscito a ricostruirsi, a trovare un equilibrio che a me sfugge ancora. Lui non ricorda tanto, per fortuna: il vicolo dove ci hanno lasciati, le mani di chi non si è voltato indietro. Ma io sì, io me lo ricordo come fosse ieri, e quei momenti mi ritornano addosso quando meno me lo aspetto. Nonostante tutto, so che la mia forza più grande è proprio lui. Non sono un buon esempio, e non pretendo di esserlo, ma Adilah è la mia unica vera responsabilità. Proteggerlo, evitargli anche solo una parte del dolore che ho vissuto, è l’unica cosa che mi dà un senso.

Tatiana ha sempre capito tutto questo, anche senza dire niente.

Tatiana ci lasciava i nostri spazi. Non chiedeva, non forzava spiegazioni. Aveva un modo tutto suo di accogliere le persone senza invaderle, quasi come se sapesse che c’erano cose troppo profonde per essere condivise. Ogni tanto mi sembrava di vedere un’ombra nel suo sguardo, come se anche lei avesse vissuto il proprio carico di dolore, un passato che non era mai necessario raccontare. Forse era questo a renderla così comprensiva, così calma con noi: capiva il peso di certe ferite.

Adilah, al contrario, era la luce in quella casa. Si era affezionato subito a lei e si muoveva con la disinvoltura di chi non ha bisogno di tenere il passato stretto come un’armatura. Vedeva Tatiana come una figura materna, qualcuno di cui fidarsi senza dubbi o timori. Ed era proprio la sua leggerezza a spingermi ad andare avanti: volevo che lui crescesse senza la costante ombra della paura, della diffidenza, dell’idea che tutto potesse sparire da un momento all’altro.

Ero io a occuparmi di lui ogni giorno: facevo in modo che avesse tutto, che si sentisse al sicuro, che andasse a scuola senza pensieri. Non ero molto più grande di lui, ma quella responsabilità mi sembrava naturale, inevitabile. Mi svegliavo prima di lui, gli preparavo la colazione, lo accompagnavo e lo andavo a riprendere. Nei nostri momenti insieme mi sforzavo di essere spensierato, ma una parte di me restava sempre vigile, sempre attenta, come se il mondo intorno fosse in agguato, pronto a portarci via quella stabilità appena trovata.

Con gli altri, invece, continuavo a restare in disparte. Non era facile per me essere aperto, fidarmi, legarmi davvero. Tatiana cercava di incoraggiarmi a fare amicizia, a uscire di più, ma io evitavo. Forse mi sembrava di non appartenere a niente e a nessuno, come se fossi sempre sul punto di dover scappare. E forse, in fondo, mi ero abituato alla solitudine, a trovare conforto solo in me stesso.

Tatiana, comunque, era paziente. La vedevo fare il possibile per non chiedermi troppo, per non farmi sentire diverso. Sapeva, credo, che prima o poi avrei dovuto affrontare tutto quel dolore, ma rispettava i miei tempi. Continuava a esserci, senza giudicarmi, come una presenza silenziosa e stabile che mi guardava da lontano e mi ricordava che, per quanto io cercassi di negarlo, avevo ancora qualcuno che si preoccupava per me.

Anche se non le dicevo mai nulla, dentro di me sapevo che le dovevo molto. Era Tatiana a tenere in piedi quel piccolo mondo che, per quanto fragile, era la cosa più vicina a una casa che avessi mai avuto.

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Nel prologo avete visto il personaggio di Abraham,che ne pensate?

Preparatevi perché piangerete molto quando scoprirete il suo passato.

✨️se il capitolo vi è piaciuto lasciate una stellina✨️

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