R - Pearl Harbor

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Pubblicazione 17/06/2022

XXVII

« Ti ho portato delle mele, sono le ultime prima della stagione estiva. Me le ha date un contadino. Si chiama Cecco... ha detto che hai combattuto la guerra con suo fratello maggiore. » dissi lasciando il cesto di frutta ai piedi del letto.

Come ogni giorno, ho iniziato la mia giornata rispettando una malinconica routine. Gli ho raccontato della mia passeggiata a San Gimignano, ho aperto le tende e spalancato le finestre per far arieggiare la stanzetta dove Leonard trascorreva la sua convalescenza.

« Ovunque vado, ti conoscono tutti. » dissi con un compassionevole mezzo sorriso.

Parlavo a Leonard solo di mattina, ma non lo facevo per essere ascoltata. Speravo con tutta me stessa che il buongiorno a dire qualcosa. Qualsiasi cosa. Che fosse una battuta, una parolaccia in russo o un'osservazione indiscreta.

Erano dieci giorni che non sentivo la sua voce. Poteva parlare, nessuno gli aveva strappato via la lingua. Ma non voleva farlo, non con noi. Da quando io e suo padre abbiamo scavalcato la sua volontà nella roccaforte, abbiamo smesso di meritare le sue attenzioni.

Il resto della giornata lo passavamo in silenzio.

Io, ero immersa nei miei appunti. Alternavo periodi in cui valutavo i suoi parametri vitali: frequenza cardiaca e respiratoria, polso arterioso e temperatura corporea; ad altri in cui me ne stavo seduta a ipotizzare cosa avesse o a escogitare qualche terapia che sortisse qualche effetto benefico.

Lui se ne stava immobile, disteso su un fianco dandomi le spalle. Occupava le sue giornate fissando la finestra accanto al suo letto. I primi tempi, cercai di capire cosa stesse guardando, se fosse più interessato alle verdi colline toscane oppure alle cerniere, alle ante o alla maniglia della grande vetrata. Qualche tempo dopo intuii che il suo guardare non aveva uno scopo preciso.

Insomma, non importava che quella finestra fosse aperta o chiusa, che le serrande fossero abbassate o meno o che fuori ci fosse nuvoloso o soleggiato. Lui controllava il suo riflesso malaticcio che con il passare dei giorni si faceva più sbiadito.

Nonostante ciò di mattina aprivo la finestra, credendo che la luce del sole e l'aria fresca facessero bene ai suoi polmoni. Di notte la richiudevo, affinché il suo sonno fosse rigenerante.

Se ne aveva l'occasione, Leonard, dormiva dall'alba al tramonto. Non urlava, non si contorceva dal dolore ma quando arrivava, strizzava gli occhi, stringeva il lenzuolo sudaticcio tra i pugni e poi, svegliandosi di soprassalto, riprendeva a guardare il suo fantasma.

Aveva le guance incavate, il naso aguzzo e gli occhi infossati. Gli occhi diversi era circondati da due grandi occhiaie, le labbra a cuore screpolate dalla pece e l'espressione vuota. Il suo umore era statico: aveva perso interesse per tutto ciò che lo appassionava.

Io e Sebastian avevamo tentato in tutti i modi di aumentare il suo coinvolgimento anche per attività quotidiane banali. Ogni giorno suo padre gli portava i suoi libri preferiti, con la speranza che ne leggesse almeno uno. I libri erano rimasti impilati l'uno sull'altro ai piedi del letto, dalla parte opposta alla finestra. Quando Sebastian ne aggiungeva uno, Leonard guardava suo padre alzare la torre di carte e poi si rigirava verso il suo riflesso. Non conoscendolo abbastanza, io gli portavo qualcosa di buono dal paese. Qualche frutto o qualche erba medicinale.

Nonostante la nostra premura, la sofferenza di Leonard restava muta. La custodiva dentro di sè senza mostrarcela. Certe notti, era il suo inconscio a lamentarsi rivelandoci quanto stesse male, non lui. Erano gli incubi, i colpi di tosse, i rantoli, i crepitii, la tachicardia e i sudori freddi, a parlare per lui, ad essere la sua voce.

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