L - Mortali immortali

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Pubblicazione 27/05/2022

XVIII

Con il naso all'insù rivolto al pallido soffitto barocco, sonnecchiavo tra morbide linee curve e andamenti sinuosi, in un'architettura che oscillava fra ellissi, spirali e curve a costruzione policentrica di mille colori. Uccelli del paradiso gialli, fiori di ciliegio bianchi, cuori sanguinanti rosa, dalie e ninfee lilla rendevano quello stretto soffitto, largo, immenso tanto quanto i giardini di Versailles. Un angolo del tetto rovinò quel pittoresco quadro botanico con qualche muffa verdastra che si sparpagliava tra i raffinati ghirigori. Da lì, una goccia piovve sul mio capo, destandomi dal mio sogno ad occhi aperti.

Seccato dalla decadenza di Rocca Sillana, chiesi ai due poppanti secolari di cui ero la balia: « Non vi annoiate? »

Ma Jane e Alec erano tutto fuorché annoiati. Dopo aver corso di qua e di là, attraversando lunghi corridoi e saltellando sui gradini delle scale a chiocciola, quei due celeri e operosi adolescenti vampiri si godevano la pausa come le Coldstream Guards di Buckingham Palace. Le due giubbe rosse se ne stavano immobili senza respirare o fiatare, fastidiosamente dedite a controllare gli ingressi alle porte dell'anticamera. Smistavano i vampiri dagli umani, li perquisivano e poi riprendevano posizione.

Di tanto in tanto, sequestravano telefoni cellulari per poi giocherellarci, commentando quanto fosse diverso comunicare nel diciassettesimo secolo e quanti scellini costasse un messaggero. Oppure si beffavano dei vampiri freddi e immortali deridendone gli abiti, le gonne a balzo e i panciotti retrò.

Per quanto mi annoiasse tutto quel viavai, mi ricordarono me e Arthur da ragazzini: imberbi, spensierati e ubbidienti.

« Ti annoi perché sei un pessimo cane da guardia. » sentenziò Jane, portando una ciocca bionda dietro l'orecchio. E il fratello la corresse, ricordandole la mia inferiorità: « Cane da caccia. »

Quello era il soprannome che Alec e Demetri mi avevano dato da quando ero lì, per sottolineare che la mia natura non mi rendeva un vero e proprio Cacciatore al servizio dei Volturi, come mio padre, ma piuttosto un bravo Terrier, utile a fiutare la selvaggina ferita e a riportarne i resti al padrone. Per mia fortuna, quella sarebbe stata l'ultima volta in cui avrei dovuto badare a quei marmocchi.

Mancavano solo 4 ore.

4 ore e la morte mi avrebbe donato pace, gioia e qualcosa di più divertente da fare che stare con quei due poppanti secolari.

Purtroppo, dovevo adempiere alle mie responsabilità. Aro mi aveva ordinato di pattugliare l'ingresso assieme ai due gemelli; non perché dubitasse delle loro capacità psichiche, ma per evitare che qualcuno potesse fare loro del male. Era il loro padre putativo da quando aveva messo sotto la sua ala Jane a Salem. Li proteggeva a suo modo e in quel caso diede loro un compito facile: presidiare l'anticamera e ricevere gli ospiti.

I due fratelli, belli come cherubini, erano avvolti da due mantelli rossi come i loro grandi occhi a forma di confetti. E i loro visi sembravano più ovali, tanto graziosi quanto pericolosi. La sorella portava i capelli biondo cenere raccolti in un nastro rosso, invece il fratello aveva i capelli più scuri e corti. Le labbra pronunciate e il naso dritto li facevano apparire come angeli di un quadro rinascimentale con le spalle posate su un grosso portone in legno verde, rustico e materico. I bordi erano stati scoloriti dai raggi del sole, lasciando trasparire il castagno sotto al colore ocra. Le maniglie di ottone, ossidate dal tempo, erano collegate da ghirigori in bronzo ad antichi battenti ad anello. Sulla superficie, una mano chiara, sfiorava con i polpastrelli il palmo di una mano nera. Mi piaceva pensare che quello fosse il simbolo del legame tra mortali e immortali.

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