Capitolo 2

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<<In piedi, detenuti!>> le luci principali si accesero e una guardia percorreva il corridoio colpendo col manganello le sbarre delle varie celle.
Leroy si svegliò, anche se quello che aveva fatto durante la notte non lo avrebbe definito esattamente dormire. Si era trattato, più che altro, di un alternarsi di momenti in cui con le palpebre serrate era in preda ad assurdi incubi senza senso e momenti in cui, invece, osservava immobile e con gli occhi spalancati il soffitto sopra di lui rovinato dalla muffa. La mattina precedente si era svegliato in un caldo letto con lenzuola di seta e alla fine di quello stesso giorno si era ritrovato a dover dormire al gelo in un letto con una coperta che sembrava fatta di cartone. Tutto infreddolito si alzò lentamente dal letto, poi si sciacquò velocemente il viso con l'acqua gelida che usciva dal piccolo lavandino lì accanto, nella speranza di sgonfiare un po' gli occhi. Leroy mise tutto se stesso nel cercare di compiere quelle azioni in maniera automatica, era l'unico modo per evitare che in un posto del genere la pazzia prendesse il controllo della sua mente, per cui un po' alla volta aveva cominciato a smettere di pensare. Mentre con le mani cercava goffamente di levare l'eccesso di acqua che aveva sul viso, udì un suono leggermente acuto. Tutte le porte delle celle si aprirono insieme automaticamente ed uno alla volta i detenuti, accecati dalle luci perché ancora assonnati, uscirono nel corridoio formando pian piano una fila ordinata. Anche Leroy fece lo stesso. Tre agenti si misero a guardia della fila che cominciò a spostarsi silenziosamente verso il cortile della prigione, dove ognuno si sarebbe dedicato alle proprie mansioni. A Gale non era previsto nessuna colazione ma solamente il pranzo a metà giornata, per il quale i detenuti interrompevano tutte le attività per recarsi in mensa, e la cena. Il tratto di prigione che percorsero non aveva nulla di nuovo rispetto alla zona in cui Leroy era stato il giorno precedente. Era grigia, fredda, malandata e debolmente illuminata. Ad un tratto la fila smise di muoversi e a Leroy parve come se gli altri detenuti stessero aspettando il loro turno per qualcosa. E infatti era così. Quando la fila scalò e arrivò la volta di Leroy, si trovò davanti ad una porta di ferro chiusa con a lato l'agente Brown.
<<Detenuto, copriti naso e bocca!>> gli disse facendo cenno con la testa verso una cesta di vimini ai suoi piedi <<Una volta fuori, rivolgiti al detenuto Victor. E' un vecchio robusto e calvo, ma al tempo stesso porta i capelli lunghi. Lo riconoscerai subito e lui ti dirà bene cosa fare>> aggiunse mentre il ragazzino era intento a prendere uno dei numerosi stracci all'interno della cesta.
Leroy rimase immobile qualche istante ad osservare il fazzoletto logoro che aveva tra le mani.
<<Ehm... mi scusi agente Brown>>
L'uomo gli lanciò un'occhiataccia.
<<P-per poter stare fuori abbiamo bisogno di maschere che ci proteggano dalla nebbia, come quelle che indossate voi guardie. Questi invece sono solo semplici pezzi di stoffa, non servono praticamente a nulla>>
<<Oh, sono desolato... prova a rivolgerti all'ufficio risorse umane della prigione>> disse Brown con tono ironico <<Ora muoviti a far scorrere la fila>>
<<S-si ma ora non possiamo uscire cos->>
<<Muoviti cazzo!>> urlò la guardia.
Leroy abbassò la testa e corse via verso l'uscita. Nel mentre udì un suono acuto, molto simile a quello sentito poco prima, che fece sbloccare la pesante porta di ferro. Dovette affannarsi parecchio per aprirla e, una volta fuori nel cortile, se la lasciò chiudere alle spalle.

Col respiro ancora pesante a causa dello sforzo appena fatto, si sistemò in maniera pressapochista il fazzoletto sul viso, annodandoselo dietro la nuca. Sapeva che, così com'era, quel pezzo di stoffa consumato era inutile. E lo sapeva anche Brown. Ma iniziò a rendersi conto che quella era una delle tante piccole forme di violenza che i detenuti subivano quotidianamente a Gale. L'intero sistema era malato e lui ne aveva sempre fatto parte, solo che adesso ricopriva un ruolo diverso. Avrebbe interpretato la parte dell'ergastolano e avrebbe cominciato andando da questo tale di nome Victor. Vari gruppi di detenuti erano sparsi per l'ampio cortile, ognuno intento a svolgere una precisa attività. Si udiva forte il canto dei gabbiani e, ogni tanto, l'orecchio più attento avrebbe potuto scavalcare le voci dei detenuti e scorgere il rumore delle onde che si infrangevano sugli scogli ai piedi della prigione. Nonostante ciò, l'oceano non era per nulla visibile. Un alto muro di mattoni grigi recintava infatti l'intera area ed era sormontato, di tanto in tanto, dalle torri di vedetta delle guardie che si alternavano a dei grossi lampioni, la cui luce si insinuava fino all'angolo più remoto della zona. Accanto ad un cumulo di terra, gli parve di vedere un uomo che corrispondeva alla descrizione fatta da Brown. Era stempiato, ma quei pochi capelli che gli rimanevano li portava lunghi e raccolti in un codino.
<<Mi scusi... signor Victor?>> chiese dopo esserglisi avvicinato.
<<Chi è che mi chiama signore?>> l'uomo si girò, squadrandolo confuso da testa a piedi. <<Ehm... l'agente Brown mi ha detto di cercare lei>> Leroy teneva lo sguardo basso.
<<Oh capisco, capisco... devi essere appena arrivato qui. Bene ragazzo, allora da oggi dedicherai le tue giornate a fracassare i sassi che ci porteranno!>> l'uomo scoppiò in una fragorosa risata.
All'improvviso da dietro di lui spuntò un ragazzino. Non uno qualunque, Leroy lo aveva già visto. Il giorno prima, in un corridoio, a terra e in preda alle convulsioni. Adesso Leroy aveva la possibilità di vederlo per bene. Era basso e mingherlino, proprio come lui. Indossava una coppola beige da cui spuntavano ciuffi di capelli scuri e si teneva aggrappato ad un bastone di legno. Con rammarico, Leroy capì subito il perché di quel bastone quando quell'esile ragazzino cominciò a camminare, anche se il termine più adatto sarebbe stato trascinarsi. I suoi arti erano completamente scoordinati nei movimenti e non riusciva a tenere le gambe dritte, era come se ad ogni movimento le sue ossa si polverizzassero. Per quanto si sforzasse, Leroy non riusciva a trovare nessuna ragione valida per cui un ragazzino ridotto in quelle condizioni dovesse trovarsi in un posto del genere. Il ragazzo tirò una manica alla divisa di Victor.
<<Uh? Dimmi Merlino>>
Il ragazzino indicò Leroy in silenzio.
<<Si, hai sentito bene! Da oggi lui si unirà a noi>>
Di nuovo Victor si sentì tirare la manica.
<<Merlino vuole sapere come ti chiami>> disse l'uomo rivolgendosi questa volta a Leroy, che era rimasto imbambolato a guardare quei due che conversavano, conquistato dall'innocenza del ragazzino.
<<Io mi chiamo Leroy!>> si destò <<Ciao Merlino>> aggiunse poi con un sorriso, che era il primo sorriso sincero che faceva da molto tempo ma che nessuno notò a causa dei fazzoletti che portavano su metà viso.
<<Bene allora, mettiamoci al lavoro e andiamo a prendere i sassi!>> esclamò Victor dando una piccola pacca sul braccio a Leroy e strizzando gli occhi come quando si sorride a trentadue denti.
I due ragazzini seguirono lentamente quel simpatico e solare omaccione, che non sembrava affatto un detenuto di uno dei carceri di massima sicurezza più inespugnabili al mondo.

Hollow Bay: ZeroDove le storie prendono vita. Scoprilo ora