25. Emily

130 7 1
                                    

A distanza di quattro mesi stavo nuovamente preparando la valigia, ma questa volta, a differenza di quando sono arrivata, era decisamente più piccola. Sarei tornata a casa dalla mia famiglia per le vacanze natalizie e avrei lasciato il clima fresco della California per dare spazio alla neve e al cielo grigio di Seattle. Sarei tornata ad indossare i maglioni pensati, i cappotti lunghi fino alle caviglie e gli stivali in gomma per la pioggia. Durante quelle due settimane avrei abbandonato quel caos che ormai era iniziato a far parte di me, che aveva iniziato a caratterizzare ogni mia giornata da quando avevo messo piede in università. Lasciare Stanford voleva dire anche tornare alla realtà e affrontare i problemi che avevo lasciato a casa fino ad ora. Forse avrei incontrato per strada quei vecchi compagni che durante gli anni delle superiori si divertivano a prendermi in giro, che una volta presa la patente mi facevano trovare le ruote bucate a fine lezione, che durante educazione fisica mi facevano sparire i vestiti. Avrei potuto incontrare coloro che mi hanno fatto smettere di credere in me stessa e che hanno creato in me problemi di fiducia. Ma ora come ora facevano parte del mio passato, avevo smesso di chiudermi in stanza a leggere le storie degli altri. Avevo iniziato a scrivere la mia. Assieme ai vestiti stavo portando come in valigia anche la sicurezza che avevo nuovamente acquisito in me stessa, stavo portando a casa una nuova Emily, colei che si era fatta un'amica il primo giorno di università, che partecipava alle feste, che aveva avuto il coraggio di aprire il proprio cuore ad un ragazzo. Ma qualcosa di buono nel tornare a Seattle alla fine c'era; avrei rivisto i miei genitori, mio fratello Logan, le mie due migliori amiche e avrei finalmente alzato la testa dai quaderni di scuola.

«Emy, sei pronta? Il taxi sarà qui a momenti.» Mi chiese la mia coinquilina seduta dall'altra parte della stanza. «Si, ci sono quasi.» Quando sono arrivata in California sono atterrata a Los Angeles e voi starete pensando "Ma non è lontano rispetto alla tua università?" Beh si, lo è parecchio, ma è sempre stata la mia città dei sogni. L'ho sempre visto come un luogo in cui i desideri diventano realtà, dove si può essere se stessi senza che ci sia lo stronzo di turno pronto a giudicarti e a farti sentire sbagliato. Però per quanto sia stato bello vederla dal vivo, Mary è riuscita a convincermi a partire dall'aeroporto internazionale di San Jose ed evitarmi un altro viaggio infinito facendomi arrivare a metà strada. Chiusi la valigia e la misi in piedi estraendo il manico per poterla trascinare, dopodiché mi caricai sulle spalle lo zaino con all'interno ciò che mi sarebbe potuto servire per il tempo che sarei rimasta sull'aereo. «Cosa aspetti per venirmi a salutare? Che stai facendo attaccata a quello schermo?» Mi allungai per sbirciare il computer su cui con così tanta frenesia stava digitando la mia amica, ma appena se ne accorse lo chiuse immediatamente e si mise in piedi. «Vieni qui, mi mancherai tantissimo.» Mi strinse in un abbraccio che mi fece quasi mancare l'aria ma ridere allo stesso tempo. «Non ci vedremo solo per due settimane, ma mi mancherai anche tu.» La strinsi a me a mia volta. «Bene, basta smancerie, iniziamo a scendere. Alan l'hai salutato?» Negai col capo. «In realtà non lo sento da ieri sera.» «Non preoccuparti, verrà a salutarti.» Afferrò la mia valigia e si diresse verso il grande ascensore infondo al corridoio. Mi chiusi la porta alle spalle e mi incamminai per raggiungerla, ma una presa salda mi circondò il polso e mi sentì trascinare all'indietro andando a sbattere contro il petto muscoloso di Alan. «Pensavi di andartene senza prima salutarmi?» «No, in realtà speravo che ti facessi vivo.» Mi concesse uno di quei sorrisi che riscaldavano il cuore e lo riempivano di tante belle emozioni che avrebbero potuto farlo esplodere. «Ora baciami, deve bastare per due settimane.» E senza avere il tempo di rispondere mi ritrovai le sue labbra sulle mie e il corpo schiacciato tra la parete e il suo torace. Schiusi le labbra per prendere fiato, ma non mi diede tregua: fece incontrare le nostre lingue che iniziarono a danzare all'unisono fino ad intensificare il bacio ancor più. Iniziò a percorrere il mio corpo con le mani finché una non raggiunse il mio seno sinistro che strinse a coppa nel palmo. Prese a stuzzicarmi il capezzolo col pollice e mi face scappare un piccolo gemito. «Non fare questi versi, altrimenti non ti farò partire.» Rabbrividì al tono gutturale della voce di Alan mentre pronunciava quella frase e sentì un calore irradiarsi in mezzo alle mie gambe. Posò le sue labbra sulle mie per l'ultima volta, per poi allontanarsi e porgermi la mano. «Andiamo, il tuo telefono non smette di squillare.» Intrecciai le mie dita con le sue e mi diressi nel cortile della scuola, dove il taxi e la mia amica mi stavano aspettando. La valigia era già stata caricata in macchina, non restava che salutare e partire. «Ma dove diavolo eri finita, ti sto chiamando da cinque minuti. Pensavo che ti avessero rapita.» Iniziò a parlare a macchinetta come solo Mary sapeva fare, non lasciandomi neanche il tempo di risponderle e di farle notare la presenza di Alan al mio fianco. «Colpa mia. Due settimane sono lunghe, dovevo salutarla per bene.» Ammiccò uno dei suoi sorrisi e mi attirò a se stringendomi per il fianco. «Certo, non poteva che essere colpa tua.» Gli puntò il dito contro. «Il tassista mi sembra alquanto spazientito, mi conviene salutarvi ragazzi.» La mia coinquilina mi staccò dalla presa del ragazzo e mi abbracciò forte. «Quando stai per partire mandami un messaggio e anche quando atterri, mi mancherai anche se sono solo due settimane.» Ricambiai l'abbraccio e la rassicurai. «D'accordo. Mi mancherai anche tu.» Sentì Alan schiarirsi la voce alle mie spalle. «Bene, ora tocca me.» «Tu l'hai già salutata, no?» «Non mi è bastato.» Lo raggiunsi facendomi scappare un sorriso. Quella situazione mi donava tranquillità, sembrava che finalmente il nostro rapporto stesse raggiungendo un equilibrio. Dal ballo d'inverno ci eravamo visti quasi tutti i giorni, eccetto quelli in cui doveva allenarsi prima della pausa invernale. Avevamo iniziato ad uscire per fare lunghe passeggiate notturne attorno al campus, ero persino riuscita a farmi raccontare qualcosa di lui, ad esempio del come è nata la passione per il disegno, di Los Angeles, la città in cui è nato. Aveva smesso di cercarmi solo per soddisfare i suoi bisogni fisici, stava rispettando i miei spazi e la mia decisione di prendermi il mio tempo, fatta eccezione di qualche bacio qua e la. «Ci vediamo tra due settimane, allora.» Portai le braccia attorno al suo collo e mi alzai in punta di piedi per raggiungere l'altezza delle sue labbra. «Spero passino in fretta.» Mi accarezzo le lunghe ciocche color ebano che mi ricadevano sulla schiena e finalmente posò di nuovo la sua bocca sulla mia. I suoi baci erano diventati un'ossessione. Erano come l'acqua per le piante, strettamente necessari. Quando mi staccai da lui, salì sui sedili posteriori del taxi e li salutai dal finestrino mentre l'autista si dirigeva fuori dal parcheggio del campus.

Lost in youDove le storie prendono vita. Scoprilo ora