Capitolo tre

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La mattina seguente mi alzai prima appositamente per prepararle la colazione ed aggiungere un bigliettino di scuse. Era la mia unica "alleata" e non ero nella posizione di scegliere. Era davvero freddo quella mattina, presi il mio affidabile motorino, e mi incamminai verso la scuola. I polmoni mi scoppiavano per lo sbalzo di temperatura, sembravo un drago che sputava fumo. Abitavo nella periferia di Evington, in una di quelle casine con il tetto spiovente in legno scuro.
Quel giorno arrivai a scuola in anticipo e ne approfittai per rileggere gli appunti per il test di matematica. Gemma non era ancora arrivata e senza dubbio nessuno mi avrebbe rivolto la parola.
Se ne stavano tutti a gruppetti a chiacchierare, ridere e mostrarsi foto sull'Iphone.
Io non ce l'avevo l'Iphone, avevo un vecchio cellulare scassato di mia madre, ma confesso che mi sarebbe piaciuto averlo, forse così mi avrebbero considerata una di loro.
Mi ero confinata al di là di un'invisibile barriera, nel tentativo di difendermi dall'abbandono, che ora era diventata una gabbia opprimente da cui non sapevo come uscire. In fondo anche io volevo essere una di loro, peró a causa della mia timidezza, la quale veniva per la maggior parte delle volte scambiata con superbia, rimanevo sempre sola.
Gemma arrivò al solito quando l'insegnante era già entrata, cosa che, fino all'ultimo momento, mi faceva stare sulle spine.
L'accompagnava suo padre in macchina tutte le mattine prima di andare in ospedale, ma a lei nessuno diceva niente se arrivava in ritardo: faceva parte del fascino degli Styles.
Chiunque altro avrebbe ricevuto un richiamo.
«Sei pronta?», mi chiese con un grande sorriso sereno che mi fece sentire ancora più impreparata.
Non aspettò la mia risposta e rispose: «Non preoccuparti ci penso io».

Il pomeriggio stesso mi ritrovai a casa sua a studiare e non ero mai stata più scoraggiata di allora.
«Non ce la posso fare a memorizzare tutto, non ho la testa abbastanza grande!», dissi a Gemma sul punto di piangere.
«Devi! C'è un altro test domani, e non ci alzeremo di qui finché non saprai tutto alla perfezione ».
«Non è colpa mia, non ce la faccio», protestai.
«No, tu non hai voglia di studiare e basta!».
«Gem, siamo sedute a questo tavolo dalle tre del pomeriggio e sono quasi le otto, ho il sedere che sta prendendo man a mano la forma della sedia!».
Prima che lei potesse rispondere, fummo interrotte dalla voce di Anne.
«Ragazze, è quasi ora di cena, ho chiamato Jocelyn e le ho detto che saresti rimasta a mangiare da noi, così dopo potete continuare a studiare se non avete finito. Ho preparato il pollo con il riso, il purè di patate e la torta al cioccolato che piace tanto a te e a tuo fratello...».
Magari potessero adottarmi.
«Grazie mille Anne, sono molto affamata!», esclamai sgranchendomi le gambe.
«Bene, fra qualche minuto dovrebbe tornare Harry, finalmente lo hanno congedato per un po' di giorni!», disse con gli occhi lucidi.
Merda...
Non era possibile, avrei preferito camminare sui carboni ardenti.
Circa dieci minuti dopo sentii la porta aprirsi e la sua bellissima, irresistibile risata. Un senso di nausea si fece spazio nel mio stomaco e la pelle d'oca iniziò a formarsi sulle mie braccia.
«È arrivato!», esclamò Gemma con voce squillante. «Dai, Chloe, vieni! Non vedo Haz da più di un mese!» disse ancora correndo verso suo fratello.
Arrivate a metà della rampa di scale, lei gli balzò al collo ed io rimasi a guardarlo mentre faceva volteggiare la sorella, immaginandomi al suo posto.
Mi si era chiuso lo stomaco e stavo sudando freddo.
Lui, l'uomo della mia vita, era lì, a un passo da me, che abbracciava sua sorella completamente ignaro di quello che era in grado di provocare al mio cuore e ai miei ormoni.
Com'era possibile?
Dov'era il bottone reset con cui avrei potuto riprendermi la mia vita vuota senza il mio amore impossibile?
Poi mi vide e la sua bocca morbida si aprì in uno splendido sorriso con tanto di fossette, che mi paralizzò, facendomi sentire ancora più idiota.
«Ehi! Ma c'è anche musona!» disse salendo le scale verso di me dato che, visibilmente, non ero più in grado di muovermi. Il motivo per cui mi chiamasse "musona" era più che evidente: in tredici anni gli avevo sorriso sì e no tre volte e proprio
perché non avevo scelta.
Risposi con un «ciao» distratto della mano, come se fossi
molto più interessata alla carta da parati dietro di lui.
«E dai Chloe, fatti abbracciare, lo so che mi odi, ma non sono contagioso!». Mi sollevò di peso appiccicandomi due
baci enormi sulle guance.
Rimasi senza fiato, travolta da un'emozione indescrivibile,
divisa fra il desiderio di baciarlo sulla bocca davanti a tutti e fuggire per sempre o, più razionalmente, agire in maniera coerente con io personaggio che mi ero costruita. Avevo amato il modo in cui le sue splendide labbra a forma di cuore avevano accarezzato il mio nome come se fosse poesia, avrei potuto registrarlo e sentirlo all'infinito. La sua, era la voce più bella che io avessi mai sentito, era così roca che ti entrava dentro, ogni volta che parlava riuscivi a sentire le parole che tremavano al centro della cassa toracica e solo Dio sa quanto mi sarebbe piaciuto sentirlo cantare.
«Ma no dai... Che schifo Haz!» dissi pulendomi con la manica della felpa come se a baciarmi fosse stato qualcuno con la lebbra.
Mi scompigliò i capelli ridendo, poi frugò nella borsa e tirò fuori una maglietta della Marina Militare, che sperai ardentemente si fosse provato prima, e me la diede in regalo.
Non me la sarei tolta mai più.
Ci accomodammo a tavola e cominciai a friggere sulla sedia. Mi sentivo incapace di articolare un discorso normale, e finivo per balbettare cose stupide e senza senso.
Per fortuna Harry non smetteva più di parlare di ciò che faceva, dagli ufficiali alla soddisfazione di aver scelto di intraprendere quella vita.
Tutti pendevano dalle sue labbra, mentre io pendevo anche dai suoi bicipiti.
Poi d'un tratto mi feci forza e mi alzai.
«Ma non hai neanche finito di mangiare Chloe, c'era il dolce al cioccolato, lo avevo fatto per te e Harry», esclamò Anne delusa.
«Mmm... mi sono ricordata che devo portare fuori Trevor, mamma è al corso di pilates e lui poverino è in casa da solo ed è un po'... debole di vescica...».
Salutai tutti in fretta, presi il mio zaino e corsi fuori.
Una volta sul motorino cominciai ad accelerare a più non posso verso casa, nella nebbia, respirando il vento freddo.
Dovevo stargli lontana. Lontana da lui, dai suoi occhi, dalle sue fossette, da quell'amore impossibile. Dovevo farmelo passare in qualche modo. Non c'era alternativa!

#spaziome
Finalmente un capitolo su Harry! Non vedevo l'ora di pubblicarlo, purtroppo per il "mestiere" trovo difficile inserirlo nella storia, peró ho delle idee in mente che non vedo l'ora di mettere in atto. Spero vi piaccia. :)

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