Capitolo sette

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Dopo le prove con Ella andai a fare la spesa per cucinare per la mamma. Presi anche una bottiglia di vino e un dolce.
Volevo che, tornando a casa, sentisse un po' di calore umano e una parvenza di famiglie.
Preparai la pappa al pomodoro (che piaceva tanto a mio padre) e che lei ci
cucinava spesso i primi tempi che abitavamo qui, poi piano piano aveva smesso di impazzire per trovare i prodotti giusti e si era adattata alla cucina locale.
Quando rientrò, la sentii salire direttamente le scale verso il piano di sopra.
Corsi subito a fermarla, non avrei sopportato di sentirla piangere in camera un'altra notte.
Quella giornata non finiva mai.
Avrei preferito un compito di chimica a sorpresa e quattro ore di prove con Ella alle lacrime di mia madre e della mia migliore amica, tutto per colpa di due idioti egoisti e immaturi.
Almeno il mio amore immaginario mi consentiva di non soffrire e, allo stesso tempo, di godermi tutte le fantasie che volevo, senza essere ferita.
Corsi su per le scale e la superai, poi la presi dolcemente per le mani e l'accompagnai giù.
Si lasciò guidare come una bambina.
«Ti ho cucinato una pappa al pomodoro spettacolosa, vedrai che ti leccherai i baffi...».
Sorrise.
«Non ho fame, ho mal di testa vorrei andare a letto».
«Non si va a letto con lo stomaco vuoto, me lo hai sempre detto», risposi
mentre l'aiutavo a togliersi il cappotto, «e poi non mi dirai che rifiuti un ottimo bicchiere di vino rosso no?»
«Hai preso anche il vino?»
«Certo, una cena che si rispetti merita un buon vino».
«E cosa dovremmo festeggiare?», chiese amaramente.
«Abbiamo un milione di cose da festeggiare ma'!», la rimproverai. «Intanto io, te e Trevor siamo insieme e godiamo di ottima salute, cosa da non sottovalutare... poi Mrs Rivers oggi non si è vista, e stasera c'è X Factor e ce lo guarderemo sul divano mangiando la torta al cioccolato che ho comprato apposta per te».
Non ne potevo più di quel divano, ci avevo passato la giornata a consolare Gemma e ci avrei passato la notte a consolare mia madre.
Considerai l'ipotesi di bruciarlo.
Mia madre finse un minimo di entusiasmo e mi seguì in cucina dove la pappa al pomodoro stava tristemente bruciando.
Mangiammo dalla pentola, grattando il fondo carbonizzato e parlando del più e
del meno, evitando con cura l'argomento Paul.
Mia mamma bevve tre quarti della bottiglia, e almeno quello la rilassò un po'. Ci addormentammo sul divano abbracciate.
Finalmente quella merdosa giornata era finita.
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Lunedì mattina, mentre chiudevo la bicicletta con il lucchetto davanti alla
scuola, vidi in lontananza una figura fastidiosamente familiare scendere dalla macchina, e la rabbia che si era appena sopita ricominciò a circolarmi nelle vene.
«Ehi tu enorme testa di cazzo!», urlai senza curarmi di chi mi sentiva.
Alex si girò, quasi consapevole che l'insulto fosse rivolto a lui.
Mi guardò, stranito, cercando di capire se ce l'avessero con lui.
«Sì, dico a te testa di cazzo, ho qualcosa da dirti». E senza riflettere cominciai
a correre più forte che potevo fino a che non gli fui abbastanza vicino da placcarlo come un giocatore di rugby.
Vista da fuori, la scena era piuttosto comica: sembravo una formica che cercava di aggredire un elefante.
Cadde per terra e gli rovinai addosso, era così sorpreso che non reagì subito.
Lo afferrai per il colletto della giacca e urlai a un centimetro dalla sua brutta faccia: «Sentimi bene, immenso coglione, quelli come te, che non hanno rispetto per le donne, dovrebbero essere castrati alla nascita».
«Ma che vuoi? Sei impazzita? Mi hai fatto sporcare tutto, brutta cretina!». Mi spinse via con forza e mi fece rotolare per terra. Avevo l'adrenalina alle stelle, non gli avrei permesso di andarsene così.
«Allora non mi sono spiegata bene!», proseguii spingendolo di nuovo per terra e sedendomi sul suo stomaco, «tu non sei neanche degno di allacciare le scarpe a Gemma, brutta merda! Hai approfittato di lei per portartela a letto e aggiungere una tacca al tuo minuscolo cazzo e vorrei ucciderti per quello che hai fatto, ma purtroppo c'è una legge che lo vieta, per cui ti giuro che ti farò pentire di averle fatto del male!».
Ero fuori di me dalla rabbia, avrei potuto veramente ucciderlo con le mie mani, e il mondo sarebbe stato un posto migliore.
Il suo istinto di conservazione gli fece capire che facevo sul serio, che ero isterica e fuori controllo e, anche se pesavo poco più di quaranta chili, ero un tale fascio di nervi che avrei potuto sollevare un pick up pieno di mattoni.
Mi fissava con lo sguardo allucinato e in una frazione di secondo mi afferrò per il collo e mi gettò violentemente per terra, lasciandomi senza fiato e con un lungo graffio lungo la gola.
Era proprio un bastardo nato.
Come avesse fatto Gemma a innamorarsi proprio di lui, era un mistero.
Si alzò e si spolverò i pantaloni.
«Cazzo mi sono macchiato d'erba! Tu sei malata, sei una puttana malata, fatti
curare!», urlò con disprezzo.
Al sentirmi chiamare puttana mi andò il sangue al cervello.
Presi dalla borsa la prima cosa che mi capitò in mano e gliela lanciai faccia con tutta la forza che avevo in corpo.
Il naso cominciò a sanguinargli abbondantemente.
Lo guardavo immobile mentre urlava coprendosi il viso con le mani.
Poteva massacrarmi di botte se voleva, e forse lo avrebbe fatto, non c'erano
altri testimoni a parte una signora con il deambulatore
«Ti denuncio! Stronza maledetta, io ti rovino!», gridò venendomi sotto.
Non aveva capito ancora, l'idiota.
Gli restituii uno sguardo carico d'odio, con la scarpetta prudentemente stretta
nella mano destra.
«Tu denunciami...», gli dissi con tutta la calma del mondo, «...e ti ritrovi con
un'accusa di violenza sessuale nei confronti di una minorenne. Come la vedi adesso, eh bastardo?».
Mi guardò con un lampo feroce negli occhi, girò sui tacchi e se ne andò bestemmiando.
La carica di adrenalina mi abbandonò improvvisamente e cominciai a tremare per lo shock.
Caddi in ginocchio e scoppiai a piangere.
Alex raccontò di aver sbattuto contro un palo, io finii comunque dalla preside.
Qualcuno aveva raccontato di avermi sentito gridare oscenità.
Sospettai della signora con il deambulatore.
Me la cavai con un altro richiamo scritto. Al successivo avrei perso
sicuramente l'anno.
In compenso diventai una specie di celebrità e quando passavo per i corridoi
mi guardavano tutti con ammirazione e rinnovato rispetto.
Anche Donna e Babi cominciarono a salutarmi. Forse volevano assumermi come loro guardia del corpo.
Si erano diffuse varie versioni dell'accaduto: che avevo picchiato Alex perché mi aveva tagliato la strada, perché aveva parlato male dei francesi e perché diceva che il Mac era meglio del PC.
E in ognuna delle versioni lo avevo colpito con un oggetto diverso.
Quel che mi dava maggior soddisfazione era scoprire che avevo realizzato il desiderio di molti.
Non dissi niente a mia madre per non peggiorare le cose.
Qualche giorno dopo stavo facendo merenda seduta da sola a un banco in fondo alla classe, quando arrivò Dylan.
Non lo vedevo dalla sera della festa.
«Ciao Choe» mi salutò un po' impacciato.
Avevo la bocca piena e, alzando la testa di scatto, per poco non mi strozzai. «Ti faccio quest'effetto adesso?»
«No, no... mi soffoco sempre quando qualcuno mi saluta!».
Rise.
«Adesso che sei una leggenda ci sarà la fila per parlare con te».
«Sì, come vedi ho dovuto usare uno sfollagente per poter mangiare in santa
pace, non ne potevo più di firmare autografi!».
Si sedette accanto a me.
«Ma sei sicuro di potermi parlare? Alex ti toglierà il saluto».
«Non parlo più con Alex».
«Davvero? Come mai, ha sedotto e abbandonato anche te?»
«Si è comportato come uno stronzo e gliel'ho fatto notare, lui non ha
apprezzato e mi ha detto che potevo andare a farmi fottere...».
«È monotematico il tuo amico...».
Rimanemmo in silenzio un attimo e poi scoppiammo a ridere.
Mi faceva piacere parlare con Dylan, mi sentivo a mio agio con lui e non dovevo
fingere di essere quello che non ero. Era rilassante.
«Senti...», iniziò, «hai ancora voglia di uscire per quella pizza una di
queste sere?».
Mi si chiuse lo stomaco involontariamente.
Cos'era quello? Un invito da parte di un amico o ci stava provando?
Andiamo, chi cercavo di prendere in giro? Certo che ci stava provando, anche
un cieco se ne sarebbe accorto.
Ma io amavo Harry e il mio cuore era tutto occupato dalla sua presenza e non
c'era (e non ci sarebbe stato mai) posto per nessun altro.
Anche se era assurdo, irrazionale e folle, ero fedele a quel sentimento a senso
unico.
Accettare quell'invito quindi, avrebbe significato illudere Dylan e tradire
Harry.
#spaziome
Scusate il ritardo ma ho avuto degli impegni. Spero che il capitolo vi piaccia.

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