Capitolo otto

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SORPRESINA A FINE CAPITOLOOOO!

«Non so... questa settimana sono molto occupata con le prove...», risposi poco
convinta, «...e poi se non studio, con la condotta che ho, posso scordarmi l'esame e... la mia vita sarà una lunga e frustrante coda fra gli uffici di collocamento, dove potrò scegliere fra pulire i cessi alla stazione o distribuire volantini di un fast food».
Mi guardò interrogativo.
«Ti sembro scemo per caso?»
«No, perché?»
«Perché ti sto solo chiedendo se vuoi uscire a mangiare una pizza con me, non voglio mica portarti a letto».
Lo guardai stupita e un po' imbarazzata.
In effetti era solo una pizza, non un matrimonio combinato.
«chi mi dice che dopo la pizza non
mi rapirai e mi porterai al castello?»
«Puoi sempre aggredirmi a colpi di portafogli...».
Fissammo per l'indomani sera alle sette, sarebbe passato a prendermi a casa in macchina.
Nel frattempo Gemma stava recuperando la sua consueta allegria, ma c'era come un'ombra che velava il suo sorriso e, purtroppo, quell'ombra era lo specchio di quello che era accaduto e che l'aveva cambiata, forse per sempre.
Avrei voluto che Harry sapesse, così lo avrebbe gonfiato di botte.
Ma niente avrebbe impedito a Alex di continuare a comportarsi da stronzo e, in fondo, l'unico modo di difendersi da tipi come lui era starne alla larga.
Sarebbe stato bello se avessero inventato un antivirus che li metteva in quarantena appena si avvicinavano o un repellente da spalmarsi addosso che ci rendesse immuni alle loro lusinghe.
L'avrei subito regalato a mia madre e alle sue amiche.
Passai il pomeriggio da Ella a provare.
Quella sera in cucina trovai mamma e Paul seduti intorno al tavolo. Sembrarono colti sul fatto, sebbene stessero solo bevendo un caffè.
Lasciai cadere la sacca per terra e andai al frigo a prendere una Coca, fingendo
che non ci fossero.
«Ciao Chloe», disse Paul.
«Ciao», risposi senza guardarlo, «sei venuto a riprenderti lo spazzolino da denti?»
«Chloe!», intervenne mamma. «Paul è venuto a parlarmi e si ferma a cena da noi».
«Perché, non gli basta casa sua?».
Si alzò innervosita e portò le tazze verso il lavandino.
Passandomi vicino mi lanciò uno sguardo omicida che interpretai come: «Tieni chiusa quella tua boccaccia impertinente e non immischiarti in cose più grandi di te». Messaggio ricevuto: anche lei era libera di andare incontro a un treno in corsa
se voleva.
Mi mancava Harry, il ricordo dei due baci sulle scale cominciava ad
affievolirsi e quel casuale contatto in macchina era stato davvero poca cosa per poterci ricamare ancora sopra.
E poi non volevo ripensare a quella serata per niente al mondo.
Gemma mi aveva detto che era ripartito per l'Afghanistan.
Ma perché non faceva il panettiere in centro?
La cena trascorse in un silenzio imbarazzato.
E io facevo del mio meglio perché nessuno si rilassasse.
Perché dovevano fare finta che non fosse successo niente, se solo fino a dodici ore prima la mamma era in uno stato pietoso? Cosa c'era in lei che non andava?
Se uno ti dice che ti lascia perché sua moglie si oppone alla vostra relazione, perché non te lo togli dalla testa e basta invece di riprenderlo appena ti richiama?
Gli adulti, a volte, erano incomprensibili.
Paul cercava di essere simpatico con me, ma non mi era mai stato simpatico, per cui era inutile che ci provasse.
Oltretutto non capiva l'ironia, quindi non avevamo speranze. «Jocelyn, è buonissimo questo pasticcio di agnello», disse. «Sì, è vero», convenni, «di che marca è?».
Mia madre mi fulminò con un'occhiata.
«In che senso?», chiese lui.
Appunto.
«Il pasticcio di agnello è surgelato!», tagliò corto mia madre.
E si alzò sbuffando.
«Okay, grazie della cena, devo studiare biologia, ci vediamo Paul». E salii le
scale di corsa.
Mi chiusi in camera, mi buttai sul letto e infilai le cuffie con gli Arctic Monkeys a tutto volume.
Dieci minuti dopo la porta si spalancò ed entrò la mamma infuriata come una
belva.
Mi tolse le cuffie.
«Mi vuoi dire che cosa ti prende? Vuoi insegnarmi anche a stare al mondo adesso?». Aveva le vene del collo gonfie, stavo di nuovo rischiando la vita.
Non risposi e finsi di continuare a studiare.
Chiuse il libro di scatto costringendomi a guardarla.
«Capisco che stai attraversando la fase in assoluto più difficile della tua vita,
ma non ti permettere di immischiarti in situazioni che non ti riguardano e di cui non sai niente!».
Mi fece paura, non l'avevo mai vista così arrabbiata.
«Smettila di giudicarmi sempre, sei troppo piccola per sapere come gira il mondo! Non è tutto bianco e nero come credi tu, ci sono una quantità di grigi compromessi che neppure ti immagini e che bisogna imparare ad affrontare per andare avanti.».
Non ebbi il coraggio di rispondere.
«Paul è un uomo buono, e mi vuole bene, e voglio provare ad aggiustare le cose con lui. No! Ferma, so già cosa stai per dirmi: che è sposato e che una donna della mia età dovrebbe sapere che certe cose non funzionano, soprattutto dopo le esperienze negative che ho avuto, ma ti garantisco che quando avrai la mia età, avrai una prospettiva totalmente diversa della vita. Anch'io a sedici anni sognavo l'amore puro e perfetto, qualcuno che vivesse per me e solo per me e che mi amasse in maniera totale, esclusiva, per sempre, ma poi ci si scontra con la realtà, che è molto meno romantica della fantasia, e questa realtà è fatta di esseri umani che hanno delle debolezze, esseri umani che fanno errori, come sposare la persona sbagliata, e non puoi condannarli per questo!».
«Mamma...», risposi mettendomi a sedere, «mi dispiace se ti ho dato l'impressione di giudicarti, non era mia intenzione davvero. Hai ragione, io non so niente della vita e dell'amore, però so che ieri hai pianto e anche l'altro ieri hai pianto e stamattina dimostravi sessant'anni quando sei uscita di casa, e io non voglio che tu soffra ancora, per un Paul... qualunque!». Avevo le lacrime agli occhi.
Lasciai galleggiare le parole.
Mi abbracciò.
Rimanemmo così per minuti e minuti.
«Ti voglio bene mamma», le sussurrai.
«Io invece ti adoro Chloe, e farei qualunque cosa per vederti felice, te lo giuro su Dio », mi disse fra le lacrime, «qualunque cosa...».
Pensai automaticamente alla Royal art School, ma sapevo che i miracoli
non esistono.
***********************************
Dylan arrivò puntuale a casa nostra e fece un'ottima impressione a mia madre e Trevor che stavano sulla porta a sorridere e scodinzolare.
Scesi le scale e lo vidi lì, davanti alla porta, con delle rose in mano.
Che c'entravano i fiori se era un appuntamento fra amici?
«Sono per mia madre vero?», lo fulminai.
«Certo, ovviamente, signora... mamma di Chloe, questi sono per lei». Le porse i fiori a braccia tese.
«Jocelyn, solo Jocelyn. Scusa, ma mia figlia è convinta che la vita senza sarcasmo non sia degna di essere vissuta. Non riesce proprio a farne a meno... Ti confesso che preferirei che fumasse! Comunque li accetto volentieri», disse prendendo il mazzo.
Uscimmo di casa, guardando per terra, senza parlare.
«Simpatica tua mamma, è giovanissima!».
«Ha quarantatré anni, non è tanto giovane!».
«Credimi lo è, mia madre ne ha cinquanta e ne dimostra settanta, per non parlarti di mio padre!».
Mio padre ne dimostrava novanta anche quando ne aveva diciotto.
Salimmo in macchina e ci dirigemmo verso il centro.
«Senti Chloe, mi sembrava un po' triste andare da Pizza Ex, allora mi sono
permesso di prenotare da Jin Feng. È il mio ristorante cinese preferito, ma se a te non piace... possiamo cambiare».
«No, cinese va bene, tutto fuorché francese, non ne posso più». Avevo già voglia di tornare a casa, non perché Dylan non fosse piacevole, ma perché non ero abituata a fare tardi e la serata mi sembrava interminabile.
Giunti davanti al ristorante aprì la porta per farmi entrare.
La cameriera ci accompagnò a un tavolo piuttosto defilato e accese la candela. Non ero mai stata a cena da sola con un ragazzo in un ristorante e mi sentivo imbarazzata.
E pensare che dovevamo semplicemente mangiare una pizza.
Era una cosa che forse avrei apprezzato a trent'anni, ma non a sedici.
Era tutto troppo "adulto" per i miei gusti.
«Ti consiglio il pollo alla mandorle o gli involtini primavera», disse Dylan.
«Non so, penso che prenderò riso e pollo».
Da bere ordinammo acqua.
La conversazione stentava a decollare a differenza delle altre volte, forse
perché la situazione era ufficiale.
«Allora, dove andrai l'anno prossimo?», gli chiesi.
«Ho scelto economia».
«Oh! Il sogno di mia madre!», non potei evitare di dirgli.
«Tu invece? Studierai canto?».
Era la prima volta che qualcuno dava per scontato che avrei continuato a
studiare canto.
«Mi piacerebbe, il problema è che mia madre non è d'accordo, e la scuola è davvero molto cara. L'audizione per entrare poi è difficilissima».
«Be', se sei arrivata fino a qui, mi sembra assurdo che tu rinunci, voglio dire, quant'è che canti, dieci anni? E improvvisamente vuoi metterti un tailleur grigio e lavorare in una banca? Credo che impazziresti nel giro di due settimane. Non me ne intendo di canto ma sono affascinato da tutti quelli che esprimono la loro creatività in qualche modo. Mi piacerebbe tanto
sentirti cantare, sono sicuro che sei bravissima».
Era anche la prima volta che qualcuno esprimeva il desiderio di ascoltarmi e che mi dimostrava una tale incondizionata fiducia.
In quel momento desiderai che al suo posto ci fosse Harry.
E, con l'occasione, che mi desse l'anello di fidanzamento.
Sorrisi e arrossii.
«Non so se sono bravissima, però so con certezza che non c'è cosa al mondo
che mi renda altrettanto felice».
«Si vede, ti brillano gli occhi quando ne parli. Sei fortunata.»
Verso le dieci morivo già dal sonno.
«Dài Chloe, ti porto a casa, non voglio che ti addormenti in classe domani»,
disse a metà fra il deluso e l'affettuoso.
Non smettevo di sbadigliare.
Era come se il fatto di essere usciti insieme ci avesse inibiti.
Arrivammo davanti casa.
«Non posso dire che sia stata una serata indimenticabile, ma sono sicuro che la prossima volta andrà molto meglio».
«Vuoi dire che nonostante ti abbia fatto passare la cena più noiosa della tua
vita, hai ancora voglia di uscire con me?»
«Certo che sì, voglio darti ancora una possibilità.».
Mi accarezzò una guancia con la punta delle dita e con tutta naturalezza
avvicinò il mio viso al suo e mi baciò delicatamente le labbra.
Mi affrettai ad aprire lo sportello e uscire.
«Scusa Chloe, non... volevo offenderti», mi disse interpretando il mio
imbarazzo.
«No... nessuna offesa, davvero... Be'... ciao, buonanotte». E corsi dentro
casa.
Una volta dentro rimasi appoggiata contro la porta chiusa senza accendere la luce, a godermi la familiare protezione di casa mia. Ero al sicuro.
Dylan mi aveva baciato, ma non riuscivo a capire se mi fosse piaciuto oppure no. Era la prima volta che qualcuno in carne e ossa mi baciava e non ero preparata.
Fino ad allora avevo solo vissuto di immaginazione, in compagnia del mio pensiero fisso, ma ero io che decidevo la sceneggiatura, e adesso era arrivato qualcuno a modificare il copione e non ero in grado di gestirlo.
Salii le scale lentamente riflettendo su quegli ultimi minuti.
Com'era possibile che Dylan si interessasse a me, se avevo fatto di tutto per non piacergli?
Avrei dovuto confessargli il mio amore per Harry? E come glielo avrei spiegato? «Sai sono innamorata di uno più grande di me che non vive qui e mi considera come una sorella minore, ma credo di avere buone speranze!».
Era un casino.
Eppure con lui stavo bene.
Pochi minuti dopo essermi infilata a letto mi arrivò un SMS.
Era di Dylan.
«Mi sa che ho fatto una cazzata, giuro che non era premeditato. Cioè un po' sì.
Ma giuro che non si ripeterà più. Anche se mi piacerebbe. Va bene, smetto di giurare. Insomma mi è piaciuto! Buonanotte cantante. D».
Ehi! Ferma, ferma, ferma! Chi si era messo in testa?
Senza dargli una risposta, misi in carica il telefono e sprofondai in un sonno pesante.
L'indomani mattina riuscii per miracolo a evitare il terzo grado di mia madre. Ciò peró non successe con Gemma.
«Allora? Com'è andata l'uscita con Dylan?», mi sussurrò durante la lezione di letteratura.
«Non ti ci mettere anche tu, mia madre mi stava per fare il terzo grado!».
«Ma io non sono tua madre, sono la tua migliore amica e ho sete di dettagli»,
insistette.
«Ci siamo baciati... credo».
«COSA?»
«Gemma, stavo dicendo?», intervenne Mrs Meyer.
«Che Geoffrey Chaucer con i Racconti di Canterbury si ispira al Decameron di Boccaccio, e sottolinea ironicamente l'ipocrisia della differenza fra le classi sociali nel Medioevo», concluse impeccabile.
«Bene, bene, Gemma», disse Mrs Meyer un po' spiazzata.
«Ma come cavolo fai?», le chiesi sottovoce.
«Non lo so, è un dono di natura, riesco a seguire anche tre conversazioni
contemporaneamente», rispose stringendosi nelle spalle. «Allora? Continua a raccontare, sei rimasta alla scena del bacio».
«Non c'è stata nessuna scena del bacio, è stata una cosa velocissima poco prima che scendessi dalla macchina».
«Okay ho capito, lasciami indovinare: siete stati a cena fuori, lui è stato carino con te e ha cercato di fare conversazione, tu gli hai risposto quasi sempre per monosillabi e non hai mangiato quasi niente, poi hai cominciato a sbadigliare e lui ti ha portata a casa, giusto?»
«Sono così prevedibile?», le chiesi aggrottando la fronte.
«Ti conosco troppo bene!», sorrise. «Riusciresti a smontare anche il più motivato dei principi azzurri con le tue battute. Raccontami del bacio dài».
«Niente... Arrivati davanti casa ci siamo salutati, e lui mi ha accarezzato una guancia e poi si è avvicinato e mi ha baciata sulla bocca».
«Con la lingua?»
«Nooooo! Sei pazza?», risposi a voce troppo alta per non essere udita.
«Chloe,stavo dicendo?», mi chiese stancamente Mrs Meyer.
Gemma si affrettò a suggerirmi: «...Che Chaucer introdusse per la prima volta
l'uso dell'inglese popolare...».
«Che... Chaucer... introdusse... per la prima volta l'uso dello slang»,
balbettai.
«Certo Chloe, che poi diventò rap e in seguito hip hop...», concluse rassegnata
Mrs Meyer.
Tutta la classe cominciò a ridere.
«Chloe!», disse Nina crollando con la fronte sul tavolo in segno di sconfitta.
«Ho interpretato...», risposi scoraggiata.
Durante la pausa non vidi Dylan, non volevo andarlo a cercare, ma allo stesso
tempo volevo vederlo.
Non sapevo decifrare quelle sensazioni contrastanti.
Gemma intanto non smetteva di stuzzicarmi.
Non vedevo l'ora di andare da Ella che mi avrebbe strapazzata per due ora
senza domandarmi niente.
Sullo sportello del mio armadietto trovai appiccicata una lettera col mio nome. Mi guardai intorno cercando chi potesse essere l'autore e la staccai
rapidamente prima che qualcuno potesse leggerla. La lettera diceva:
Ho due biglietti in seconda fila per gli Arctic Monkeys questo venerdì, ma se non ti interessa ci vado con Alex... D.
Due biglietti per gli Arctic Monkeys?
In seconda fila?
Oddio mi girava tutto, dovevo sedermi.
Dylan era completamente pazzo, quei biglietti costavano più di cento sterline l'uno.
Non potevo accettare.
Ma volevo accettare!
Corsi da Gemma.
«Ma è bellissimo Chloe!»
«Ma è un regalo troppo impegnativo, non so come interpretarlo».
«Pronto? Sei in casa? Va bene che sei una schiappa in matematica, ma non puoi non saper fare neanche 2+2!». Sospirò. «Se ti ha chiesto di uscire, ti ha baciata e ti ha invitata ad un concerto significa che è cotto di te, non c'è altro da capire!».
Mi appoggiai sconsolata alla parete.
«E cosa dovrei fare secondo te?»
«Devi accettare! È così romantico, vorrei che fosse...». Un lampo di tristezza
le attraversò il sorriso, ma cercò di scacciarlo subito. «...Dammi retta, accetta e non pensare ad altro che alla splendida serata che trascorrerai».
«Ma se accetto, poi significherà che stiamo insieme? Non sono pratica di corteggiamenti e non conosco l'oscuro codice delle relazioni».
«E chi lo conosce? Se questo fosse successo ai tempi di mia mamma, era chiaro che lui avrebbe voluto fidanzarsi con te e che, prima o poi, ti avrebbe chiesto di sposarlo, ma questo un secolo fa, ora, come vedi, non vuol dire niente neanche andare a letto insieme», concluse amaramente.
«Quindi se accetto di andare al concerto non divento automaticamente la sua ragazza».
Gemma aggrottò la fronte: «Ma perché non vuoi dargli una chance? È talmente carino, non puoi nascondere tutta la vita la testa sotto la sabbia per evitare le relazioni».
No, non potevo, anche se mi sarebbe piaciuto.
Sentivo che, cominciando a uscire con un ragazzo "vero", sarei entrata ufficialmente nel mondo degli adulti e avrei dovuto avere a che fare con tutti quei grigi compromessi di cui parlava mia madre.
Rientrammo in classe e cercai di concentrarmi sulla lezione di chimica, ma non riuscii a smettere di pensare a quello che avrei detto a Dylan.
All'uscita di scuola passai davanti al suo armadietto e appiccicai con il chewing gum un biglietto con la mia risposta che diceva «Okay».
Avevo il dono della sintesi.
Tornata a casa, mi chiusi in camera e mi buttai sul letto.
Fuori aveva cominciato a piovere e mi sentivo strana, malinconica e confusa. Abbracciai il cuscino e mi raggomitolai.
Mi chiedevo come sarebbe stata la serata con Dylan, cosa ci saremmo detti in macchina, e se dopo saremmo andati a cena ma, soprattutto: se avesse tentato di baciarmi di nuovo, glielo avrei lasciato fare?
Chissà cosa stava facendo Harry.
Non aggiornava più il suo profilo di Facebook, ma c'era qualche foto nuova che lo ritraeva insieme agli altri militari.
Sorrideva sempre e aveva l'aria orgogliosa e fiera.
Anche se lo avrei preferito meno patriottico, non avrei voluto che fosse diverso da com'era.
L'unica nota positiva della tragica sera della festa era che mi era rimasto il suo numero di telefono in memoria.
Ogni tanto lo selezionavo e lo stavo a guardare per decine di minuti immaginando che squillasse e a volte ero tentata di chiamarlo.
E riattaccare subito.
Era assurdo: Dylan avrebbe venduto sua madre per una mia telefonata, mentre io sognavo solo di chiamare qualcuno che non sapeva quasi che esistevo.
Ma accettare la corte di Dylan, che era obiettivamente un ragazzo dolce e carino, era l'unico modo per tentare di togliermi Harry dalla testa una volta per tutte.
Mi tirai su dal letto, appoggiando inavvertitamente il gomito sulla tastiera del telefonino, e mi allungai per prendere il libro di storia sulla scrivania.
Dopo alcuni secondi sentii una lontanissima voce chiamare il mio nome.
Dovevo avere le allucinazioni uditive se mi sembrava di sentire Harry dire: «Chloe, sei tu? Stai bene?». Forse stavo esagerando, dovevo smettere di pensarci troppo.
Mi guardai intorno perplessa cercando di capire da dove provenisse quella voce.
E appena mi resi conto che proveniva dal mio telefonino, mi si fermò il cuore. Senza riflettere spinsi il bottone rosso e riattaccai.
Osservavo il telefono in preda alla vergogna più totale.
Come avevo potuto essere così stupida?
Non terminai il pensiero che il telefono si mise a vibrare e a squillare. Istintivamente lo coprii col cuscino.
Cioè: Harry mi stava richiamando e io avrei dovuto dirgli che era partita la chiamata per sbaglio?

#spaziome
Saaaaaaaalve. Penso sia il capitolo più lungo fino ad ora. Bando alle ciance, ecco finalmente Harry! Da qui giuuro che sarà più presente. Non vedo l'ora di mettere il prossimo. Ringrazio voi che leggete! ❤️

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