L'armadietto

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(Takahashi Mei)

Pioveva a dirotto quando riuscii ad aprire l'armadietto.
Fino ad allora non mi era mai venuto in mente, ma quel giorno scoprii che lo spogliatoio femminile era il posto perfetto per nascondersi in una giornata fredda come quella; il trambusto delle gocce d'acqua che picchiettavano ininterrotte da due giorni sui tetti di Tokyo erano amplificate dal silenzio che regnava sovrano nella palestra accanto. Se chiudevo gli occhi mi sembrava di essere in una sorta di bolla.
Mi ero sistemata in un angolo, su una delle lunghe panchine che affiancavano i muri, le ginocchia al petto, nel tentativo di riscaldarmi a causa di quegli insopportabili pantaloncini al ginocchio che facevano parte della divisa sportiva. Nelle mie mani avevo finalmente il contenuto dell'armadietto.
Ero in quella scuola da una vita. La struttura, un po' isolata rispetto alla movimentata Tokyo, comprendeva un asilo, le elementari, le scuole medie e le superiori: lì avevo speso la maggior parte delle ore che avevo vissuto in questo mondo, da quando avevo tre anni fino ai diciotto. E sempre, sempre, quell'armadietto era rimasto chiuso.
Si trovava nello spogliatoio femminile adiacente al campo da basket e pallavolo ed era stato lì per anni. Non era possibile immaginarsi la stanza senza la presenza dell'armadietto, senza la sua pressione e la tentazione che portava tutte almeno a provare ad aprirlo.
Come se ci fosse una sorta di regola non scritta, nessuna delle studentesse che aveva notato il malfunzionamento aveva riportato nulla ai professori. All'inizio era stata solo una compagnia sinistra, poi era diventata una fissazione e infine una leggenda.
La leggenda dell'armadietto che nessuno era mai riuscito ad aprire. Avevo iniziato a sentire queste voci già alle scuole medie, ma a quel tempo non avevo idea che sarebbe diventato il punto fisso della mia vita liceale. E invece, al primo anno di liceo, mi ripromisi che prima della maturità sarei riuscita a farcela, l'avrei aperto.
Ed eccomi, dopo quasi diecimila combinazioni di quel dannato lucchetto a quattro cifre, ce l'avevo fatta. Avevo aperto l'armadietto impossibile da aprire.
Non so che cosa mi aspettavo di trovare. Forse la soluzione al problema che il Professor Uraka metteva ogni anno agli esami finali e che nessuno era stato ancora in grado di risolvere, forse dei segreti scottanti e imbarazzanti dei professori con tanto di foto, oppure un grande foglio che diceva: "Scherzetto! Ma congratulazioni per essere riuscito a superare il lucchetto". Invece, trovai un taccuino.
A giudicare dalle pagine ingiallite e decisamente usate, doveva essere vecchio di almeno dieci anni. Era un Moleskine A5, spesso e pesante. Lasciando prendere aria alle pagine, notai la scrittura densa di ideogrammi talvolta tanto precisi e sottili da sembrare stampati, altre volte tanto disordinati da essere intelligibili. Me lo rigirai tra le mani cercando di indovinare quali potessero essere i contenuti. Non volevo rimanere delusa. Forse erano solo vecchi appunti, ma avevo la sensazione, come un gorgoglio nello stomaco, che qualcosa di speciale era stato inciso su quelle pagine.
Finalmente lo aprii. Dietro la copertina, in alto, c'era un nome: Sakura Kobayashi; e un anno: 2018. Mi chiesi quante Sakura Kobayashi esistessero in Giappone. Troppe. Quelli erano il nome e il cognome più diffusi al tempo.
Girai la prima pagina. Era sottile e o sembrava che potesse trasformarsi in cenere al minimo tocco.
C'era un pezzo di carta piegato una volta. Lo aprii prima di leggere le prima parole che Sakura Kobayashi aveva scritto anni fa. Era un post-scriptum.

"Se stai leggendo questo taccuino e ti aspetti la soluzione al problema del professor Uraka, sei nel posto sbagliato: chiudi e mettilo a posto nell'armadietto. In queste pagine non troverai rimedi per la tua vita, che sia meravigliosa o un inferno, non troverai gli appunti perfetti di chimica che ti aiuteranno a prendere i voti più alti.
Questo taccuino parla di me. E se non ti interessa, non sarò lì a giudicarti se rimetterai il taccuino a posto.
Invece, se deciderai di leggere il taccuino, per favore, non andare all'ultima pagina. Quando ho iniziato a scriverlo, ormai un anno fa, non sapevo se ci sarei arrivata. Quindi ti rovineresti solo la lettura.
Se stai leggendo questo taccuino, prenditene cura. Qui ho scritto i miei pensieri, ciò che ho visto e ciò che vorrei vedere. Nelle tue mani, hai parte della mia anima."

Lessi quelle parole ancora e ancora finché non le imparai a memoria. Il taccuino era diventato improvvisamente più pesante ma sapevo che non sarei stata in grado di rimetterlo a posto senza leggerlo prima: quelle parole mi avrebbero tormentata per sempre.
Quindi, poggiai i miei occhi sulle prime parole di Sakura Kobayashi.

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