Quella volta in cui ho ucciso una persona

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Una volta ho ucciso una persona. Non mi sto vantando, era solo un peso di cui volevo liberarmi al più presto. Ora respiro un po' meglio, o così mi pare.
È successo molto tempo fa, quando ancora non sapevo che bastava un passo—letteralmente— per passare dalla vita alla morte. Quella volta me lo ha insegnato meglio di quanto mille libri o film avrebbero potuto.
Io e Asami-chan eravamo vicine di casa, le nostre madri erano amiche, passavamo da loro il capodanno, la domenica ci incontravamo per pranzo, in estate le nostre famiglie organizzavano grandi barbecue. Non c'era stato un giorno in cui non la vedessi. Siamo state insieme all'asilo nido, alla materna, alle elementari—fino alla terza elementare.
Asami-chan parlava tanto. Odiava il silenzio e così lo riempiva con qualsiasi cosa. Ogni tanto parlava, ogni tanto cantava. Io ero tutto il contrario. Preferivo camminare senza proferire parola, magari ascoltando i rumori che venivano prodotti attorno a me. Asami-chan era stancante, a volte. Ma non sapevo fare altro che starle dietro, quindi, obbediente, la seguivo in silenzio. Lei mi parlava del suo cagnolino nuovo, Zuzu, uno di quelli piccolini e dal pelo lungo e morbido, mi raccontava delle mollette che gli aveva messo tra le orecchie la sera prima, di quanto era carino, di quanto non vedeva l'ora di giocarci. Io annuivo e sorridevo ed esclamavo cose come: "Che carino!", "Oh, deve essere proprio bello avere un cagnolino", "Voglio proprio vederlo!", anche se in realtà l'ascoltavo solo a metà. Forse ero solo invidiosa, ma ora io sono viva e lei è morta, quindi magari è meglio così.
Quello che è successo è molto semplice. Il prima e la morte effettiva sono avvenuti nello stesso istante, ma li ricordo bene. È stato come nei film, quando la scena va a rallentatore e si è consci di ogni millisecondo. Forse gli occhi grandi e la bocca spalancata nel grido disperato di Asami-chan l'ha immaginata la mia mente dopo tanti anni, così come la grande quantità di sangue, che in realtà non doveva essere così tanto, ma tutto il resto lo ricordo bene perché ne avevo scritto una pagina di diario al riguardo poche ore dopo l'avvenimento. Erano le parole di una bambina di otto anni, quindi grammatica e sintassi sono penose, ma proverò a riscriverle il più fedelmente possibile.
Dalla fermata dello scuolabus a casa erano solo due minuti a piedi. In pratica dovevamo svoltare l'angolo e attraversare la strada, non era complicato, e i nostri genitori non si preoccupavano. Era un quartiere molto tranquillo, il nostro.
Ma non quel giorno, non in quel momento.
La farò breve: Asami-chan è stata presa in pieno da un camion ed è stata spappolata dalla vita in sù. Rimanevano solo le piccole gambette immobili, piegate in maniera strana, proprio da persona morta investita.
Io ero dietro di lei e avevo visto il camion arrivare.
Asami-chan stava parlando, continuava a raccontare di Zuzu e del suo fratellone, Hayato-kun, che era arrivato primo in chissà quale gara di chissà quale arte marziale, e io con un orecchio ascoltavo lei e con l'altro ascoltavo tutto il resto. È così che ho sentito il motore di quel grosso camion che avanzava troppo velocemente verso di noi. È così che ho rallentato, osservandolo. Asami-chan continuava a camminare, non si era accorta del pericolo e parlava e parlava. Forse non volevo interromperla—ho sempre avuto un problema ad interrompere i discorsi degli altri, mi sembra irrispettoso—o forse pensavo che si sarebbe fermata e si sarebbe guardata intorno prima di attraversare. Ma era troppo presa da se stessa e dalle sue parole, quindi ha fatto quel passo in più ed è morta.
Avrei potuto allungare la mano e tirarla indietro, o avrei potuto chiamarla, ma non l'ho fatto. Ho seguito il camion con lo sguardo finché mi è passato davanti, si è preso la parte superiore di Asami-chan, insieme alla sua vita, e mi ha superato. Ho seguito il processo in silenzio, come si osserva le pedine del domino cadere una dopo l'altra.
E alla fine, non ho sentito niente.
Il camion si era fermato, qualcuno stava urlando, il vicinato si era riversato sulle finestre, per strada, per capire cosa fosse successo, e Asami-chan era già morta.
Io continuavo a guardare dritto, dove prima c'era stata lei, ma non la trovavo più e anche la sua voce era scomparsa. Niente più Zuzu o Hayato, niente di niente, solo le grida della gente che vedeva le gambette insanguinate di Asami-chan e si girava dall'altra parte.
Il cuore mi batteva forte nelle orecchie e annullava tutti i suoni, avevo la sensazione di avere carta vetrata al posto della lingua e di averci mangiato un limone.
Poi sono arrivati i miei genitori e quelli di Asami-chan, ma le persone già presenti non hanno lasciato loro vedere la scena. Li hanno trattenuti con la forza, mentre pian piano la consapevolezza di ciò che era accaduto si insinuava in loro e gli strappava il cuore. Vedendo gli occhi rossi della madre di Asami-chan e la sua furia e come sembrava del tutto capace di andare ad uccidere il conducente del camion, l'unica cosa che mi venne in mente, è che speravo nessuno mi avesse visto non fare niente. Mi immaginavo già uno di quei vicini insopportabili come Fukuda-san, che osservavano sempre la strada dalla finestra, che puntava il suo indice storto verso di me e urlava: "È stata la ragazzina a uccidere la povera Asami-chan! L'ha guardata senza salvarla, non ha fatto niente!". Ma cercando il signor Fukuda lo vidi con gli occhi lucidi che guardava fisso verso le ruote insanguinate e il corpo spappolato della bambina.
Mio padre mi ha portata a casa, mia madre è rimasta con i genitori di Asami-chan. È arrivata un'ambulanza e la polizia. La prima decisamente inutile. Mio padre non sapeva evidentemente come comportarsi, probabilmente stava facendo tanti di quei ragionamenti complicati su cosa sarebbe servito a una bambina che ha appena visto la sua amica di infanzia morire, da non notare che non mi era scesa nemmeno una lacrima.
Forse ero triste, ma non me lo ricordo, magari ho anche pianto, ma ho l'impressione di essere stata muta e seria persino al funerale. Quello che mi ricordo, invece, è che da quel giorno in poi sono tornata a casa in silenzio e, sotto sotto, ne ero sollevata.

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