COME NETFLIX

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Quella casa gli sembra estranea.

È una sensazione che lo infastidisce, dal momento che dovrebbe stare bene, avere addosso sicurezza e non con l'ansia.

Eppure, ce l'ha, fermo immobile nel corridoio con la porta che si è appena chiuso alle spalle.

Leo non è in grado di muovere nemmeno un passo in avanti. Non crede di aver fatto troppo rumore, sebbene sia relativamente presto e ogni suono risulta amplificato. Fatica a spostarsi, quasi avesse i piedi incollati al pavimento e fosse impossibilitato nei movimenti.

Ha l'intenzione di raggiungere camera propria, chiudersi lì dentro e...

Non può neppure ipotizzare di restarci tutto il giorno, considerando l'impegno alla casa discografica più tardi quella mattina, però di permanerci un tempo sufficiente a metabolizzare ciò che è successo durante la notte precedente.

Ci sono davvero troppe cose che gli ronzano in testa, eventi all'apparenza insignificanti che hanno innescato una reazione a catena destinata ad andare avanti e a portare a risvolti che teme.

Non si è accorto di star trattenendo il respiro e di averlo fatto nell'esatto momento in cui Daniele è apparso sulla soglia della porta del salotto, lo stesso che adesso è immobile con le braccia lungo i fianchi, l'espressione stanca e due segni scuri attorno agli occhi, segno che, probabilmente, non ha dormito nelle ore passate.

Si guardano per dei secondi che paiono eterni, mentre una tensione opprimente riempie l'aria, soffoca entrambi, come se tutti e due fossero oppressi da colpe, rimorsi e rimpianti che non riescono a scacciar via o a risolvere.

«Ti ho chiamato» Daniele è il primo a parlare, a voce bassa, un lieve sussurro in fondo alla gola.

Leo abbassa lo sguardo, tenta di fissare qualsiasi punto non sia il volto dell'altro ragazzo, perché si vergogna, perché non sa quale espressione gli si possa mai stampare in faccia.

«Non ho visto» mente.

Ha visto tutto, ha solo eliminato le notifiche e ogni traccia dell'accaduto sulla via del ritorno.

Tuttavia, Daniele crede alla sua menzogna – o forse no, finge di farlo: annuisce, un leggero cenno del capo, frattanto che osa avanzare di qualche centimetro, ma si ferma presto.

«Mi dispiace» mormora «per quello che ho detto ieri sera, io... non so cosa mi è preso, sul serio.»

Leo lo ascolta in silenzio: vorrebbe dirgli che quelle parole non servono a nulla, che ha provocato una ferita profonda, la quale non può essere risanata da un patetico mi dispiace, che così non risolve nulla.

Ciò nonostante, non ha voglia di discutere, di urlare, di sbraitare e piangere ancora.

È svuotato a tal punto che intavolare una discussione gli sembra inutile. Quindi, con tono basso, replica con un flebile «Okay» e nulla più.

È qualcosa che non è sufficiente per Daniele, qualcosa che è distaccato e disinteressato, che fa male.

Fa male il modo in cui lo vede abbassare il capo, infossarsi nelle spalle, come lo osserva farsi più distante, lontano da sé. Ed è strano poiché non è mai accaduto.

In tutti quegli anni passati fianco a fianco, in ogni situazione, sono rimasti vicini.

Di nuovo silenzio, dolorosa e opprimente assenza di suono.

«Dico davvero» insiste «non volevo.»

«Okay.»

«E Noemi, lei non...»

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