RUMORE

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Leo ha sempre odiato gli ospedali.

C'è uno strano odore là dentro, stantio e acre che si insinua nelle narici e gli impedisce di respirare in maniera corretta.

Non sopporta l'odore e le luci troppo forti che sono amplificate dai corridoi dalle pareti bianche, i pavimenti del medesimo colore, in netto contrasto con il nero delle sedie di plastica rigida della sala d'attesa.

Odia pure quella: un buco, un due metri per tre in cui lo hanno costretto, invitandolo a pazientare. Il problema è che ha poco di cui essere paziente ed è una delle ragioni per le quali continua a far sussultare la gamba destra mentre è accomodato su una di quelle dannate sedie, con lo sguardo fisso al mazzo di chiavi che perennemente rigira fra le dita.

Il metallo è freddo sotto i polpastrelli e il ciondolo a forma di limone dondola lievemente. Non sa perché tiene tale oggetto in un modo quasi maniacale, come un cimelio prezioso da custodire; eppure, lo fissa, stringendo il labbro inferiore fra gli incisivi.

«Ti ho portato del caffè.»

Leo solleva il capo per osservare Mattia che gli sta davanti, piegato sulle ginocchia e in bilico sui talloni per cercare di essere più o meno alla stessa altezza e guardarsi in volto.

Fa una smorfia e scuote la testa in cenno di diniego. «Non mi va» taglia corto, non prestando neppure attenzione al bicchiere che contiene la bevanda calda.

«Okay,» Mattia non prova ad insistere, piuttosto si rimette in piedi e si siede al suo fianco «non è venuto ancora nessuno?»

Leo fa di nuovo cenno di no. «Nessuno,» biascica «siamo da un'ora qui e non ci dicono niente.»

«Magari vogliono solo accertarsi delle sue condizioni e non darci delle informazioni parziali.»

Aggrotta le sopracciglia e sbuffa. «Non ci vuole niente a dire che sta bene, non... non ci vuole niente.»

Mattia si morde piano il labbro inferiore. In quelle situazioni non sa mai come comportarsi o cosa dire e qui risulta estremamente più difficile, considerando che sembra avere a che fare con una bomba pronta ad esplodere da un momento all'altro.

L'entrata di Luca nella sala d'attesa allevia di un briciolo il senso di oppressione che percepisce al petto, seppur si limiti a sollevare lo sguardo e deglutire rumorosamente.

Leo, invece, scatta in piedi e va in contro al manager con passi rapidi e incerti. «A te hanno detto qualcosa?» soffoca «Ti hanno parlato? Ti––»

«No, no, Leo» sussurra Luca, mettendogli due mani sulle spalle nel tentativo – forse vano – di calmarlo «So quanto te. Dobbiamo solo aspettare.»

«Aspettare.»

«Ho chiamato i suoi genitori, per ogni evenienza» aggiunge «meglio saperlo da noi che da un articolo su internet.»

Fa una breve pausa. «Ho detto loro che li tengo aggiornati su ogni cosa, decideranno poi se è il caso o meno di salire.»

Leo non sta nemmeno più ascoltando le sue parole. Strizza ripetutamente gli occhi che continuano a pizzicargli e sicuramente si sono arrossati più del dovuto. Riesce a biascicare uno stentato «Okay» prima di trascinarsi a forza, di nuovo, sulla sedia di plastica e lì abbandonarsi. La vede, in seguito, la mano di Mattia che si poggia sul proprio ginocchio e, razionalmente, sa che è un gesto affettuoso, di sostegno, per fargli capire che gli è vicino.

Tuttavia, in quel momento gli pare quasi superfluo e fuori luogo e non ne comprende il motivo.

Trascorrono ulteriori trenta minuti tra Luca che fa su e giù per la sala, con le mani nelle tasche dei jeans. e Leo che rischia di perdere il fiato, logorato da una simile attesa.

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