PROLOGO

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Dubita che le stelle siano fuoco,
    dubita che il sole si muova,
    dubita che la Verità sia mentitrice,
    ma non dubitare mai del mio amore.
  — William Shakespeare, Amleto

LOKI:

LEALTÀ.

Una parola. Tre sillabe. Sei lettere.
Nessun significato.
Anche se, stando a sentire i comizi infiniti di mio fratello, vi verrebbe da pensare che gli scorra nelle vene più copiosa del sangue che ci lega.
E se vi capitasse di origliare i pettegolezzi a corte, sareste dello stesso avviso.

    'Il principe Thor sarà un buon re.'

    'Porterà avanti l'eredità del padre, su questo non ci piove.'

Qualcosa di spesso mi si incastra in gola coi suoi spigoli vivi, il mio sguardo si sposta tra le fiamme ruggenti del camino all'altro capo della stanza e alla lampada a olio posta al centro del tavolo, quello occupato dai membri del Consiglio della Corona. Una mezza dozzina di volti, nessuno dei quali pieno di cordoglio.

Mi tira il petto.

    "La vita è una questione di apparenze, Sire, ed è in nome delle apparenze che dobbiamo fare ciò che va fatto," enuncia Heimdall, il primo consigliere di mio padre – ora di mio fratello – con l'attenzione rivolta al punto in cui siede Thor.

    "Così com'è noto che vostro padre si è serenamente spento nel proprio letto, si sa anche che voi avete un certo... appetito."

    "Heimdall, per favore," lo interrompo io, appoggiando la schiena contro il muro rivestito di pannelli di legno. "Non c'è bisogno di convincere noi di dove è morto mio padre."

I miei occhi si spostano su mia madre, l'unica donna nella stanza, che sta tamponando sotto i suoi occhi scuri e infossati con un fazzoletto con le proprie iniziali. In una situazione normale, non sarebbe di certo qui ad Asgard, poiché ha sempre preferito trascorrere la maggior parte delle sue giornate nella tenuta di campagna, ma visto che ci siamo appena lasciati alle spalle il funerale di suo marito, Thor ha insistito perché rimanesse.

E la sua parola è legge.

    "È la faccenda del serenamente su cui dobbiamo mentire," continuo, posando ora il mio sguardo su mio fratello.

    Un sorrisetto gli tira le labbra, i suoi occhi color ambra sfavillano. Una rabbia ardente mi divampa al centro del busto e mi risale lungo la gola, avvolgendomi la lingua col suo sapore amaro e aspro.

Picchio contro il legno con lo stivale per allontanarmi dalla parete e mi sposto verso il centro della stanza finché non torreggio sul tavolo, incuneato tra mia madre e Heimdall. Mi prendo il tempo che mi occorre per esaminare ogni singola faccia delle persone sedute qui come se fosse solo un giorno come un altro, con le loro stature farcite di fastosità e grandezza.

Come se non avessimo appena perso qualcuno di importante.
Qualcuno di vitale.
L'unica persona rimasta a cui importasse qualcosa.

    "Sono sicuro di non aver capito cosa intendi," gracchia Heimdall con la voce tirata, mentre inforca gli occhiali con la montatura di corno.

Alzo il mento mentre lo scruto dall'alto e noto delle ciocche ingrigite che punteggiano i suoi capelli altrimenti scuri. Sono anni che sta con la famiglia – sin da quando ero un ragazzo – e agli inizi è stato una persona preziosa nella mia vita. Ma la vita è in continua evoluzione e il calore di Heimdall è stato presto smorzato dalla gelida asprezza dell'avidità.

MISCHIEFDove le storie prendono vita. Scoprilo ora