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Roma, 11 Febbraio 2033

«Amore de papà, te va de fa’ un gioco co’ papà Simone?»
«Che gioco?»
«Visto che hai imparato a fa’ i nodi e sei diventata bravissima, vai da papà co ‘sto nastrino e glielo leghi su ‘sto dito qua – disse, indicandogli l’anulare sinistro – e poi glielo togli e me lo riporti. Però ‘n je di’ che te l’ho detto io. È un segreto, amore, va bene?»
«Sì, papone»

Ché Manuel aveva visto l’anello, quell’anello, già un paio di settimane prima.

Era appena uscito dal lavoro quando, passando davanti ad una gioielleria, una scintillante fede in oro bianco con un piccolo diamante al centro aveva attirato la sua attenzione.

Si era fermato a guardarla e a rimirarla fino a maturare una decisione.

L’avrebbe regalata a Simone e, con essa, gli avrebbe chiesto di sposarlo.

Ché dopo tre anni di fidanzamento e convivenza, una bimba di quattro anni e un gattino tigrato di nome Tolomeo, i tempi gli sembravano maturi per compiere il grande passo.

Anche se Manuel non lo riteneva necessario.

Ché per lui il matrimonio non era altro che una formalità.

Eppure era conscio di quanto Simone ci tenesse e per lui lo avrebbe fatto.

E di quale migliore occasione avrebbe potuto servirsi se non di San Valentino che era, ormai, alle porte?

San Valentino.

Un’altra nota dolente.

Ché Manuel non era mai stato un accanito sostenitore di quella festa consumistica che serve solo a smerciare quegli orribili cioccolatini alla nocciola, ma anche in quel caso, sapendo quanto Simone ci tenesse, non si era mai tirato indietro dal programmare qualcosa da fare per quel giorno.

E per quell’anno, probabilmente, era pronto per fare le cose in grande.

Servendosi dell’aiuto della loro figlia Stella, quattro anni e un metro di dolcezza e ricci biondi, quindi, decise di dare inizio alla seconda sorpresa per Simone organizzata nella sua vita.

***

«Giochiamo, papino?»

Alzò gli occhi dal libro che stava leggendo, Simone, e li incastrò in quelli di sua figlia che, di punto in bianco, si era presentata da lui con un fiocchetto e un’improvvisa voglia di giocare.

«A cosa giochiamo?» rispose, paziente, Simone.
«Così, papino» disse, mostrandogli il nastrino e legandoglielo subito – non troppo stretto per, poi, poterglielo togliere – attorno al dito, così come le era stato chiesto da Manuel.

Sorrise, Simone, ignaro del motivo per il quale Stella avesse voluto fare proprio quel gioco, all'apparenza senza senso, orgoglioso dei progressi nella crescita di sua figlia e di quel nomignolo con il quale era solita chiamarlo.

Papino.

Ché sin da subito, Stella aveva identificato Simone come papino e Manuel come papone e ciò faceva – ogni volta che quelle due parole uscivano dalla bocca della piccola – andare i ragazzi in un brodo di giuggiole.

Ché, in fondo, nessuno dei due ragazzi, prima di confrontarsi con la dolcezza e l'amore di quella bambina, aveva pensato di essere in grado di fare il padre.

Ma se, come è vero, genitori non si nasce, Simone e Manuel avevano imparato ad essere dei padri amorevoli ed esemplari sul campo, guadagnandosi tutto l'affetto che Stella era in grado di dare loro.

Quella casa che avevamo in menteDove le storie prendono vita. Scoprilo ora