CAPITOLO 2 - Evan

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Mio zio finalmente capisce che non ho voglia di fare conversazione e così si arrende.

Finiamo di mangiare in silenzio e poi mi riaccompagna a casa.

«Sicuro che non vuoi che entri un attimo?»

«Sì, zio, non mi serve il baby-sitter.» Replico sbuffando.

Mi sento subito in colpa per la mia risposta sfacciata. Lui si sta facendo in quattro per me e questa è la mia gratitudine verso di lui. Che cazzo di stronzo.

«Scusa, zio, è che ho bisogno di stare un po' da solo.»

Lo vedo annuire comprensivo. «Se hai bisogno, chiama, va bene?»

«Okay, grazie.»

Scendo dal suv e lo saluto con un cenno del capo.

Resto fermo sul viale a fissarlo fare retromarcia e allontanarsi. Andrà a stare in albergo siccome casa nostra non ha una stanza per gli ospiti, e l'alternativa era il divano, non un gran ché comodo, o la stanza di Shannon, fuori discussione per ovvi motivi.

Mi volto e davanti a me appare la casa dove sono cresciuto. Una piccola villetta a due piani, senza particolari lussi e con poche cose di valore, ma dove non mi è mai mancato niente.

Quando sono nato, mia madre ha lasciato il lavoro per occuparsi di me e, in seguito, di mia sorella, mentre mio padre andava a lavorare per mantenerci. Mamma faceva la musicoterapeuta e ha passato a me e a Shannon la sua passione per la musica. Non ha più ripreso a lavorare neanche quando siamo diventati grandi. Si vedeva quanto le sarebbe piaciuto ricominciare, eppure ha preferito dedicare tutta sé stessa alla sua famiglia. Faceva la semplice casalinga. Lavava, cucinava e si prendeva cura di noi senza mai prendersi una pausa, e lo faceva ogni giorno con gioia. Papà era poco presente, sempre in ufficio, così mamma si impegnava a ricoprire anche il suo ruolo. Alla sera, mentre lo aspettavamo rientrare per cena, ci sistemavamo tutti e tre sul dondolo in giardino, e mamma ci faceva sentire qualche nuova canzone. Ricordo che, da piccoli, se io o Shannon eravamo tristi, mia madre aveva sempre il brano adatto per farci tornare il buonumore. Era una persona molto empatica, riusciva a percepire ogni nostro stato d'animo senza che noi glie lo dovessimo spiegare. Credo di aver preso questa dote da lei, o difetto, se lo guardo attraverso gli occhi di mio padre. "Un uomo non deve mai mostrarsi debole, Evan" mi aveva rimproverato un giorno, quando ero corso da lui piangendo perché Miles sarebbe andato due mesi in campeggio e io non lo avrei visto per tutta l'estate. All'epoca avevo solo nove anni, eppure quella frase mi ha cambiato per sempre. Ha piantato dentro di me un seme velenoso, che non mi ha mai più permesso di essere del tutto me stesso. Quel giorno, il modo degradante in cui mio padre mi ha guardato, mi ha fatto vergognare di aver pianto di fronte a lui, e da allora ho cominciato a nascondere i miei sentimenti.

Avanzo piano verso l'ingresso, le gambe tremanti, mentre il cuore è confuso su quale frequenza cardiaca mantenere. Un secondo prima avverto questo muscolo pompare furioso, mentre l'attimo successivo, quasi arrestarsi.

Salgo lentamente i gradini della veranda, che scricchiolano ad ogni mio passo, facendomi trasalire.

Infilo la chiave nella serratura e, nel momento in cui spalanco la porta, mi si impiantano i piedi alle assi di legno, l'odore di casa che mi travolge, raggiungendo alcuni neuroni del mio cervello, che subito si attivano, riportando alla mente ricordi belli, che adesso fanno solo male.

Mi spingo dentro a fatica e mi chiudo l'uscio alle spalle.

È strano, essere di nuovo qui. Mi guardo intorno e tutto sembra rimasto uguale, i quadri con le foto di Shannon alle pareti, la coperta preferita di mia sorella ripiegata in modo ordinato nel solito angolino del divano, e il suo giubbotto di jeans ancora appeso al guardaroba, proprio come se lei non se ne fosse mai andata.

SUPERNOVA - SCONTRO TRA STELLE BINARIEDove le storie prendono vita. Scoprilo ora