Capitolo 12:

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Hermione aveva un piccolo rituale tutto suo per rilassarsi: puliva casa con prodotti al profumo di lavanda e, quando aveva terminato, si stendeva sul divano con un buon libro poggiato sulle gambe e una matita tra le mani che le serviva a sottolineare i punti più interessanti di una lettura.

Pronta ad affrontare ancora Pansy Parkinson, decise che avrebbe trascorso la maggior parte della mattina sfogliando le pagine del tomo che aveva scelto e perdendosi nelle parole che le correvano veloci attraverso la retina.

Sistemò una tazza di caffè sul tavolino accanto, un piattino con una dozzina di biscotti al cioccolato e un paio di occhiali da vista, nel caso in cui i suoi occhi avrebbero cominciato ad avvertire la stanchezza.

Non si preoccupò di guardare il cellulare, né di chiedersi se Neville avesse finalmente deciso di rispondere all’ultimo messaggio che gli aveva inviato, anzi.

Infatti, l’aggeggio che rappresentava l’unico modo per tenersi in contatto con il suo forse futuro marito, giaceva abbandonato sul marmo della cucina, poco distante dalla macchinetta del caffè.

A cosa sarebbe servito continuare a guardare il display e a far crescere a dismisura la propria delusione? E se proprio avesse deciso di farlo, poi, mica poteva fare una qualche magia affinché questo si illuminasse e il nome di Neville ci comparisse su?

No, appunto.

Quindi, non appena trovò una posizione comoda, aprì il libro che aveva scelto e s’immerse nella lettura: aveva così tanta voglia di far colpo sulla proprietaria del Ruh bar e di cominciare il suo nuovo progetto che dedicò la sua attenzione ad un testo che trattava l’impatto dei colori sulla psicologia di una donna in carriera;

fu strano per lei, scoprire che spesso non era l’abito a catturare l’attenzione, ma la sfumatura delle labbra e il riflesso dello smalto sulle unghie (forse Ginny non era del tutto fuori di testa quando diceva che tutto, ma proprio tutto dovesse essere en pendant, che anche l’aspetto più insignificante di un essere umano dovesse risaltare per rendere il quadro di se stessi perfetto e armonioso).

Hermione non si era mai soffermata su questi particolari, nemmeno durante gli anni dell’università:

aveva sempre creduto che tutto partisse da qualche meccanismo interno alla mente umana e non per forza da uno stimolo esterno e, giungere alla conclusione di aver trascurato qualcosa e, quindi, di essere fallibile e non del tutto preparata come credeva, la fece sprofondare in una sorta di depressione;

chiuse il libro per qualche minuto, portando il segno con la matita e decise di accendere una candela profumata alla lavanda, dato che, oramai, l’odore dei prodotti di pulizia cominciava a scemare e lei avvertiva la calma abbandonarla lentamente:

durante il tragitto per prendere la candela miracolosa, comunque, trascorse qualche secondo a guardare da lontano il cellulare — sembrava morto e, forse, lo era anche Neville, visto che ancora non si degnava a dare segni di vita — e che l’avvisassero, maledizione! Almeno si sarebbe rassegnata a essere vedova senza nemmeno essere stata moglie! —, ma, decisa più che mai a riversare tutte le sue energie in quell’idea improvvisa e che man mano stava prendendo forma per fare colpo sulla Parkinson, tornò a stendersi sul divano e a riprendere la lettura.

Non era mai stata una patita della moda e vestirsi, per lei, equivaleva solo a non restare in mutande e reggiseno; durante le sedute di shopping-terapia (come amava chiamarle Ginny), Hermione sceglieva gli indumenti che maggiormente la colpivano e, una volta entrata in camerino e averli provati, li acquistava solo se si sentiva a proprio agio a indossarli:

non aveva mai comprato nulla sulla base del senso estetico o dell’impatto che un pezzo di stoffa avrebbe potuto avere sul suo interlocutore o su chiunque si fosse trovato a guardarla: era comodo, tanto bastava.

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