Camille (1)

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"Una delle cose più dure nella vita è avere parole nel tuo cuore che non puoi pronunciare"
James Ear Jones

Dopo il discorso e le presentazioni del direttore tornai in reparto. Ascoltai l'inaspettato silenzio e poi vidi Nathalie, una bambina con origini americane di più o meno tre anni che camminava verso di me con ancora la flebo attaccata al braccio.

«Nati, come sei arrivata qui? dovresti stare a letto per la nanna» mi piegai sulle ginocchia, per raggiungere la sua altezza. «Volevo stare con te, ti ho preso questa» mi porse una rosa bianca senza spine. «Ma tesoro» sorrisi, prendendola in mano ed annusandone il profumo.

«Zia Maggie me ne ha portate tante tante e volevo darla alla mia infermiera preferita, ma non dirglielo» spiegò, sottovoce. Aveva paura che la zia potesse venirlo a scoprire e offendersi.
La mia infermiera preferita.

Portai le mani al petto, continuando a sorridere. «Sono felicissima di essere la tua infermiera preferita, Nathalie. Adesso però dobbiamo tornare a letto, verrò da te fra pochissimo» la rassicurai, lasciandole un dolce bacio sulla fronte.

Lei annuii e dopo averle rimboccato le coperte, mi recai in bagno. Sentivo il bisogno di far uscire quelle odiose lacrime pungenti, stavano mettendo a dura prova la mia resistenza. Lavorare in quel reparto era straziante e allo stesso magnifico, doloroso ma appagante.

Ogni giorno convivevo con la consapevolezza di non poter prevedere che cosa sarebbe successo durante il turno, che avrei potuto perdere i miei piccoli pazienti da un momento all'altro. «Non posso andarmene dalla pediatria, non posso» sedetti sul pavimento, inclinando la testa verso il basso e poggiando le mani sul volto.

«Sono troppo legata a loro» continuai a parlare da sola, come una perfetta esaurita. Avevo bisogno di mettere in ordine le informazioni e quello era il metodo più efficace. «Porca puttana» e ovviamente, senza alcun tipo di filtro.

Rimasi alcuni minuti in silenzio, respirando a pieni polmoni l'aria presente in quella piccola stanza. Solo dopo mi alzai, pulendo la divisa dai vari granelli di polvere. Osservai la mia immagine riflessa nello specchio e asciugai le lacrime. Dovevo far finta di niente.

Sospirai e aprii la porta, trovandomi davanti proprio il nipote del direttore. «Aiuto» posizionai la mano sul petto, diventando completamente rossa in viso. Ero convinta di essere sola in reparto.

«Infermiera...» il suo sguardo cadde sul mio cartellino. «Martinez, è del reparto?» domandò, scrutandomi con attenzione. In quel momento, sperai con tutto il cuore che non avesse sentito lo sfogo che avevo avuto.

Annuii, con le parole bloccate in gola. «Come ho già detto durante la riunione, mi occuperò di questo reparto. Sarebbe così gentile da presentarmi i pazienti e mostrarmi le sale dedicate al personale?» chiese, mostrando un'incredibile professionalità.

«Assolutamente, mi segua» risposi, nonostante dentro stessi morendo di imbarazzo e di timore. «Nel nostro reparto al momento sono ricoverati nove bambini, la fascia di età parte dai quattro mesi ai dodici anni» spiegai, sperando di non aver dimenticato alcun dato.

«Se non ha esigenze specifiche, direi che possiamo iniziare il nostro giro in ordine di stanza.» «Proceda pure, infermiera» sottolineò l'ultima parola, come se volesse mettere in evidenza la superiorità per il ruolo che svolgeva.

Arrivammo davanti alla stanza del primo paziente, fortunatamente erano tutte vicine. Il silenzio che ci avvolgeva durante la nostra camminata diventava sempre più fastidioso da sopportare.

«Dopo di lei», sembrava quasi che stesse trattenendo un sorriso quando mi indicò la stanza, volendo che entrassi per prima. «La ringrazio» mi limitai a dire, ignorando tutto il resto.

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