Dillo alla luna (Luke)

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Quando mi chiede, «ti ho fatto male?» con quel tono sommesso e colpevole, per un attimo sto per risponderle la verità.

Sì, mi hai fatto un male cane. Un dolore nel petto che ho sentito per giorni, per settimane intere.

Ero ripiombato nel buio, senza alcuna speranza stavolta.

Faceva male dentro, come un livido che anziché asciugarsi si espande. Mangiavo poco, dormivo male. I tagli che avevo appena cicatrizzato si ruppero, come uno strappo sul cotone leggero.

Nonna era l'unica che aveva capito. L'unica che tentava di tamponare le ferite.

Avevo tredici anni, ma la vita me ne aveva dati almeno cinque di più e capivo tutto, anche quello che non volevano dirmi.

Mia madre mi aveva abbandonato, non sapevo il motivo, ma sapevo quanto mi bastava: era viva ed aveva scelto di andarsene. La mia migliore amica, una sorella, la prima ragazza di cui mi sia mai innamorato, mi aveva lasciato senza neanche salutare e poi si era dimenticata di me.

Anche tu.

Tu, che conoscevi il mio vuoto; a cui avevo regalato la mia parte migliore.

Quando nonna si presentò con quello stupido bigliettino, il giorno in cui sei partita per Madrid, giurai a me stesso e a tutte le lune che incontrai nelle mie notti in bianco, che non avrei mai, mai più, regalato la mia intimità a nessuno.

Capii che Alessandra mi stava domandando dell'incidente avvenuto un paio di giorni prima e non risposi niente. La mia testa oramai era partita e l'auto che stavo guidando era una Delorean che mi riportava indietro di dodici anni.

Non voglio perdonare la sua colpa, per cui non ha alcun senso dirle cosa ho dentro. Non più. Né a lei, né a nessun'altra.

Quando siamo nuovamente sotto casa, ed è arrivato il momento dei saluti, non sappiamo cosa dire, né cosa fare.

Solitamente non sono degno di alcun addio.

La lascio tornare a casa, nel suo nido famigliare, in cui l'hanno sempre accolta e protetta. Non ho intenzione di continuare la pantomima delle scuse e delle banalità. Cammino lentamente, fumandomi l'ennesima sigaretta della giornata, ritornando senza troppa voglia né piacere a quei giorni andati, dove lei mi ha catapultato con il suo ritorno.

L'ultima volta che venne al loft non mi accorsi di nulla. Nessun'emozione tradì quello che mi stava per fare. Giocammo, scherzammo, ricordo che disegnammo alcune vignette della nostra storia, che non finimmo. Dopo di allora non la rividi più.

Non accennò mai alle sue intenzioni e venni a sapere che era partita per puro caso.

Venne, nei primi due o tre anni, almeno un paio di volte in Italia, e tentò di venire a trovarmi, ma mi negai sempre.

Sentivo che stava per tornare dai discorsi dei miei e facevo in modo di non farmi mai trovare a casa. Una volta per poco non la incrociai, avevo circa quindici anni ed avevo una ragazzetta tutta pepe, più grande di me, che mi prestava il motorino. Stavo mettendo il casco e sentii la sua voce alle spalle che chiedeva se fossi in casa, mia nonna non ebbe neanche bisogno di vedere il mio viso. Spinsi lo scooter giù dal cavalletto e me ne andai.

Ero ancora il bambino arrabbiato che lei non aveva mai cambiato. Avevo cancellato quel poco di buono che avevamo costruito. Ho chiuso tutte le sue cartacce in una valigia, ho dimenticato le storie, i personaggi, le favole che ci raccontavamo ed ho fumato il suo stupido biglietto.

"Volo via amico mio, ma ti porto con me. Leone e farfalla, per sempre."

Una stupida riga, nessuna promessa.

Quel giorno in piùDove le storie prendono vita. Scoprilo ora