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Daphne si stava ritorcendo nel letto, di nuovo. Le lenzuola sembravano una prigione. Il silenzio una tortura. I suoi pensieri, vorticanti e traditori, le impedivano di rilassarsi abbastanza per dormire. La paura di quello che avrebbe visto una volta chiusi gli occhi le impediva di concentrarsi abbastanza da costringersi ad addormentarsi.
Sparta l'aveva scossa nel profondo, le statue degli dei greci della paura le avevano solleticato le ossa lasciandole un costante brivido sulla spina dorsale. E soprattutto, una orribile realizzazione. I suoi pensieri aveva viaggiato come il vento e Daphne, incapace di controllarli, aveva sentito come il suo cuore sobbalzava ogni volta che la mazza di Mimas sfiorava Annabeth e Piper. Come le sue gambe volevano solo correre sulla nave e farsi stringere da Jason.
Quando Daphne aveva sentito il nome della controparte divina del gigante, il padre di Leo, la sua testa non aveva più pensato ad altro. Voleva solo che lui fosse lì con loro, a combattere e ingegnarsi e tirarle fuori di li. A fare battutine mentre il panico minacciava di sopraffarla, per interrompere l'effetto di Deimos e distrarla da Fobos. Per renderla funzionale, come una macchina, perché per tutto il tempo trascorso nella grotta Daphne si era sentita come un ingranaggio bloccato. Si vergognava di tutto ciò, di come trovasse insopportabile quella missione senza la voce del greco, di come pensasse che Leo era esattamente il pezzo mancante per rendere quella battaglia facile e veloce, perfetta. Però suo padre era Efesto, no? Esattamente il dio che doveva essere in grado di sconfiggere l'orribile gigante van goghiano che aveva cercato di ucciderle spaventandole a morte. E chi doveva essere li, se non la sua prole più non atletica, sarcastica e ingegnosa?
Ma c'è l'avevano fatta comunque, erano tornate sull'Argo II, avevano riferito la missione ai ragazzi che non erano tanto felici di sentire cos'avessero passato, e Daphne aveva trascorso un paio d'ore in panchina, o mensa, per riposare e assicurarsi di non avere una concussione. C'era stato il leggero dubbio che avesse qualche costola incrinata o spezzata quando faticò a salire la scaletta sul lato della nave, un pò di ambrosia aveva risolto il problema (qualsiasi esso fosse).
Beh, forse non qualsiasi.
Daphne era incapace di fare quello che la sua natura, entrambe umana e divina, richiedeva: dormire. Non si sentiva così sconvolta, stanca e spaventata da quando viveva nella casa sul prato. Ma adesso non aveva il campo di papaveri sempre sbocciati da guardare fuori dalla finestra, usando il loro movimento ondulato per addormentarsi. C'erano solo nuvole che nascondevano le stelle o acqua tumultuosa e scura.
Si tirò su a sedere, infilandosi la felpa viola del campo sopra alla canottiera da notte, e uscì dalla propria stanza. Puntò alla mensa, cominciando a prepararsi una tazza di cioccolata calda nella speranza di alleviare i nervi. L'intera nave era addormentata, Bufford Hedge II faceva il turno notturno, e l'unico suono nell'intera stanza era il ronzio della luce appesa al soffitto. Una specie di ventilatore muto, ma che vibrava abbastanza da produrre un minimo rumore che riuscisse a sovrastarle i pensieri. Daphne mise il pentolino con la cioccolata sul fuoco, si appoggiò al tavolo ed incrociò le braccia.
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VICI | leo valdez
FanfictionLa distanza tra i semidei e Gea si stava accorciando, e i nodi stavano arrivando al pettine. Le ultime tappe erano sparpagliate, confuse e difficili, esattamente come i pensieri di Daphne. Forse per questo non l'aveva visto arrivare finche era trop...