Ultimi giorni 21

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Ero seduto nella mia poltrona, fuori il sole tramontava. Come mi muovevo leggermente sentivo la schiena che scricchiolava. L'estate era nel pieno, il mio riflesso nello specchio non lo riconoscevo più, ormai ero un'altra persona. Sedevo provando a sgombrare la mente da un paio d'ore. Avevo spiato la mia casa nel bosco per un'ora buona prima di avvicinarmi, senza paura ma con tanta determinazione. Avevo bussato.

«Sei ancora vivo?» mi disse lei.

«Anche tu. Sei stupita, sono sopravvissuto alla tua trappola. Ma devo ancora portare a termine il mio compito e stavolta non ci saranno interferenze», risposi con indifferenza.

«Cosa vuoi?»

«O esci o muori».

«Devo prendere le mie cose».

«Hai pochi minuti, prendi l'indispensabile. Le provviste restano».

Fortunatamente, era andata bene, aveva compreso che non avrei accettato altre risposte. Mi sentivo motivato, se mi avesse risposto in maniera sbagliata l'avrei uccisa di sicuro. Dopo pochi minuti mi salutò con un cenno, non provavo alcun senso di colpa, anche se probabilmente non sarebbe sopravvissuta.

La casa era il passaggio, lo strumento per viaggiare nello spazio. Come? Non lo sapevo, non mi interessava, l'importante era raggiungere l'obiettivo, aprire la porta e ritrovarsi sul pianeta degli dei. Ero convinto che avrei viaggiato di notte, quindi l'indomani mattina mi sarei ritrovato a calpestare suolo alieno. Feci un giro per la casa, sembrava tutto come l'avevo lasciato. Tutto ciò che volevo, tutto ciò che vogliamo è sicurezza, confini, organizzazione. Chiunque aveva dovuto rinunciare a questo, io ero più fortunato di molti altri perché ancora vivo. Ma nessuno avrebbe mai cantato le mie gesta, perché nessuno le conosceva e non c'erano gesta da cantare, se non fallimenti continui, confusione ripetuta. Forse, sarebbe stata un'ottima canzone per far ridere i commensali. Una commedia tragica. L'altra volta la casa si era spostata di notte, così, non avendo chiare indicazioni, pensai che sarebbe accaduta la stessa cosa. Mi accomodai sulla poltrona, senza alcuna voglia di andare a letto e mi appisolai. Dopo pochi minuti già dormivo.

Mi svegliai, il sole entrava dalle finestre, mi sentivo spaesato. Uscii immediatamente: l'aria, la terra, ero altrove. Anche questa volta aveva funzionato, potevo provare a farmi perdonare, a non farmi distrarre per raggiungere il mio scopo una volta per tutte. Notai per la prima volta che non avevo visto alcun tipo di abitazione. O il palazzo era isolato oppure non esisteva più nessuno: un pianeta deserto, vittima di dei spietati. Mi diressi verso la mia destinazione con ansia crescente, la stanchezza sembrava scomparsa. Non avevo mangiato nulla, né bevuto, non pensando neanche di portare qualcosa con me. O torno a rifocillarmi o muoio qui, solo e dimenticato. In quel secondo viaggio notai molte più cose: i colori, le piante, gli alberi. Tutto era così diverso eppure così affascinante. Se avessi avuto una macchina fotografica e tempo libero, avrei passato giorni a documentare la meraviglia della scoperta, l'emozione di osservare un nuovo mondo e calpestare la sua terra. Ma non potevo, il Libro mi aveva ammonito, il tempo stava scadendo o forse era già scaduto, anche se pregavo qualsiasi divinità che avesse pietà di non fallire nuovamente. Dea Madre, donatrice di vita, creatrice di ogni cosa, abbi pietà di un tuo figlio, che sta tanto soffrendo, accogli la mia supplica.

Davanti a me, la parte superiore del palazzo rosso. Accelerai il passo. La discesa verso il portone la percorsi quasi correndo, stando ben attento a non inciampare, a non rotolare per tutta la strada rimasta, morendo prima ancora di entrare. L'enorme porta era sempre aperta, dentro il buio mi attendeva. E il silenzio angosciante di un pianeta morto. Stavolta salii direttamente nella camera degli dei, il cuore che batteva all'impazzita. Prima di entrare provai a calmarmi, non potevo rischiare di essere sentito, dovevo trasformarmi in un uomo incapace di emettere un suono. Neanche il mio respiro si sarebbe dovuto sentire. Voltai l'angolo dopo aver salito le scale ed entrai nella stanza. La trovai vuota. Il sangue mi arrivò fino ai capelli, mi sentivo sul punto di morire. Colto dal panico, che si mutava ogni minuto di più in terrore assoluto, mi lanciai in tutte le stanze del palazzo, guardando ovunque. Non trovai traccia dei tre dei. Erano usciti? No. La realtà era solo una: avevano compiuto il viaggio. In qualche modo, erano riusciti a superare ogni ostacolo, ogni distanza, e il loro corpo aveva seguito la coscienza, raggiungendola e ricongiungendosi. Remlah, Ifid e Syushan, ormai regnavano sulla Terra, disponevano di un numero altissimo di anime su cui abbattere la loro violenza folle. E il responsabile ero io, incapace di cogliere i suggerimenti del Libro dei Mondi, incapace di portare a termine un compito comprendendo tutte le parole e le informazioni che mi erano state consegnate in quel tempo che non riuscivo più a calcolare. Ora, prigioniero di un mondo abbandonato anche dagli stessi governanti, solo e vicino alla follia, ero destinato a trascorrere la mia vita lì, in compagnia solo dei fantasmi e dal ricordo dei miei fallimenti. Caddi sul pavimento, consumato dalla paura. Avvertivo gli occhi che diventavano sempre più gialli, sempre più verso la follia, sul baratro del delirio.

Mi svegliai. Ero sudatissimo e sconvolto. Mi guardai intorno: ero sdraiato sulla poltrona, si avvicinava l'alba. Avevo sognato o avevo viaggiato con la coscienza? Non sapevo cosa rispondere, ma l'idea del sogno mi dava speranza. Magari era stato un brutto incubo e una volta fuori mi sarei ritrovato sul pianeta degli dei, la missione era ancora possibile, la vittoria dietro l'angolo. Mi alzai dalla poltrona e uscii, dovevo scoprire subito la verità. Ero sul mio pianeta, morente e forse ormai condannato per sempre.

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