Ultimi giorni 22

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Insofferente, incapace di pensare ad alcunché, mi allontanai da quelle mura che mi soffocavano. Barcollai, neanche l'arrivo dei caldi raggi del sole riuscivano a calmarmi, a farmi concentrare. Mi lasciai cadere sull'erba, ad occhi chiusi, con qualche lacrima che scendeva lenta. Ero stato ingannato di nuovo? Il Libro dei Mondi mi aveva detto di non fidarmi di nessuno, di sicuro avevo sbagliato qualcosa. Di nuovo. Avrei dovuto ritrovare l'uomo al falò? Provare a rileggere le pagine del libro per cercare un ennesimo indizio? Aprii gli occhi, fissai il cielo. Fortunatamente ero già disteso, altrimenti sarei stramazzato. Il cielo si presentava azzurro, limpido, privo di nuvole, segni, apparizioni. Era il cielo che avevo sempre osservato prima degli ultimi giorni. Cosa significava? Gli dei erano qui oppure il loro viaggio era fallito ed erano tornati indietro? Dovevo scoprirlo, mi sentii pervadere da un'energia sfrenata. Corsi dentro casa e raccolsi lo zaino, poi mi lanciai fuori dal bosco in direzione della città più vicina. Era necessario che mi rendessi conto della situazione e solo in città l'avrei potuto fare con certezza. In solitudine non avrei compreso nulla.

A volte correvo, poi riposavo per riprendere fiato. Il caldo era asfissiante e non aiutava chi andava di fretta. Ma io dovevo capire, dovevo scoprire la realtà celata nel mio sogno. Cos'è un sogno se non un viaggio della coscienza? E allora non poteva essere che io avessi realmente viaggiato lontano? Su un altro mondo, alla ricerca della salvezza. Presto avrei saputo tutto.

Mai avrei immaginato un destino così. Quando pensavo agli ultimi giorni, ero convinto che sarebbero arrivati per mano degli uomini. Troppo inclini alla violenza, incapaci di miglioramento, mettevano orgoglio e ambizione al di sopra di qualsiasi cosa, di qualsiasi vita. Capaci di perpetrare i peggiori massacri senza perdere il sorriso, ora era il nostro turno. Invece, come una guerra scoppiata all'improvviso rivoluziona la tua vita in un istante, costringendoti a prendere decisioni che mai avresti voluto prendere, così i segni nel cielo avevano rivoluzionato la nostra esistenza, corrompendoci nel fisico e nella mente. Gli dei volevano a tutti i costi abbandonare il loro pianeta morto e trasferirsi sul nostro mondo, pieno di anime da torturare.

Osservai le prime case con il cuore che mi batteva all'impazzata per la fatica. La troppa ansia mi aveva quasi costretto a percorrere il tratto di strada di corsa, senza possedere alcun tipo di allenamento. Mi fermai un attimo a riprendere fiato, respirando profondamente. L'unica cosa fondamentale in quei tempi bui era tenere viva la lucidità mentale, la capacità di rimanere concentrati e pronti a prendere qualunque tipo di decisione.

Il sole fendeva in diagonale gli edifici, luce e ombra mai così separati, un taglio netto tra speranza e oscurità. La mia oscurità che mi stava facendo vivere un inferno in terra, un inferno personale, sebbene io non abbia mai creduto in nulla. Inferno, purgatorio e paradiso: inventati dagli uomini per gli uomini. Pretendere di ragionare, contrattare, stabilire materie al di fuori dei nostri sensi e delle nostre menti, che non potremo mai verificare, mi ha sempre divertito. Eppure, è sempre stato così e sempre lo sarà, anche se la verità si nasconde pur essendo bene in mostra: tutto è venuto dalla polvere e tutto ritorna nella polvere. Il resto è solo racconto, è letteratura. E non dovrebbe spaventarci, come non spaventa i nostri compagni in questa avventura sul pianeta che abitiamo. Oggi, però, mi ritrovo a sperare con tutte le mie forze che davvero non esista un inferno, perché sarebbe un abisso senza fine, comandato da dei privi di qualsiasi forma di pietà.

Gli uomini tremanti non si vedevano e interpretai questo fatto come positivo, come un lento ritorno alla normalità. La visione poco avanti nella via di un gruppo di tre bambini che giocavano con una palla, mi rasserenò: gli ultimi giorni non sarebbero mai arrivati, il sole splendeva su tutti, il cielo era una poesia azzurra.

«Ciao!» li salutai con troppa enfasi quando fui vicino a loro. Mi osservarono con stupore e risposero salutandomi con la mano.

«Dove vai?» mi chiese uno di loro sorridendo.

«Sto facendo una passeggiata. Abitate qui vicino?» chiesi, indeciso se chiedere di essere accompagnato dai loro genitori.

«Sì», risposero, ormai fermi nel loro gioco, mentre aspettavano che me ne andassi.

«Come ti chiami?» domandai senza un motivo al bimbo che mi rispondeva. Pensavo forse di trovare la sua casa grazie al cognome?

«Ifid», mi rispose, sempre sorridendo.

«Io mi chiamo Remlah», rispose l'altro bimbo.

«Io sono Syushan», disse il terzo bimbo.

Mi paralizzai, non poteva essere uno scherzo ma non capivo il senso di quelle parole. Sbiancai di sicuro, perché i bimbi mi scrutavano con attenzione e ridevano. Ridevano di me? Per fortuna, ripresero a giocare a palla, io mi voltai e ripresi a camminare, sconvolto.

«Aspetta!» mi urlò uno.

Mi girai temendo il peggio. Potevo aver paura di tre bambini?

«E tu come ti chiami?» mi urlò uno di loro e tutti iniziarono a ridere.

Mi allontanai in fretta, controllando se mi rincorressero: continuavano a giocare tranquilli. L'eco delle loro risate mi seguivano. Come mi chiamavo? Qual era il mio nome? Cercai di calmare la mente, di concentrarmi. Troppa solitudine, avevo dimenticato il mio stesso nome? L'avevo mai saputo? Da quanto andava avanti, non riuscivo a ricordare nulla della vita prima del declino, solo piccole immagini che mi comparivano davanti. Chi ero?

Trovai altri bimbi che giocavano e questo mi sembrò strano: dov'erano finiti tutti gli altri? Cinque bambini si voltarono verso di me quando sentirono il rumore dei miei passi. Ci salutammo, avevo paura a chiedere qualsiasi cosa. Lo scenario era mutato, però tristemente avevo scoperto che era mutato in peggio.

«Come vi chiamate?» chiesi preparandomi a qualsiasi risposta.

«Ifid», «Io Remlah», «Anche io Remlah», «Ifid», «Io Syushan», mi risposero tutti quasi in coro.

Ebbi la conferma che con la scomparsa dei segni nel cielo la situazione era arrivata a un punto di non ritorno: ormai gli dei erano qui, pronti a scatenare il loro personale abisso di torture e sofferenze infinite. Pronti a ridurre questo pianeta come avevano ridotto la loro casa. Tutto sarebbe diventato polvere, le menti tormentate, i corpi martoriati.

«E tu come ti chiami?» mi domandarono in gruppo, interrompendo i miei pensieri disperati.

Le loro risate, i loro sguardi, mi sconvolsero. Scappai via a passo svelto, volevo mettere più spazio possibile tra me e quei bimbi. Non avrei rivolto più la parola a nessuno, avevo bisogno di ammortizzare il colpo. Svoltai casualmente lungo le strade, poi mi fermai su una panchina a riposare, ben conscio del rischio che correvo: da solo, fermo in una piazza. Chiunque avrebbe potuto notarmi. Quando mi alzai era ormai buio, le ore erano passate senza aver incrociato nessuno, senza aver sentito alcun rumore. Decisi che ne avevo abbastanza di quella città e dei suoi abitanti e mi preparai ad allontanarmi facendo un giro diverso, per evitare brutti incontri. Ben presto, però, iniziai a percepire un rumore lontano, ma che pareva avvicinarsi. Non riuscivo a comprendere cosa fosse e mi misi sulla difensiva. Camminai lentamente mentre mi guardavo intorno, tutti i sensi all'erta. Improvvisamente, il rumore si fece vicinissimo e da un vicolo spuntò un gruppo di bambini, più di quelli che avevo incrociato, forse una ventina. Correvano verso di me, con una testa sproporzionata rispetto al corpo: era troppo grande. Ridevano tutti, creando un'orribile cacofonia infernale, qualcuno ogni tanto gridando chiedeva il mio nome. Iniziai a correre, voltandomi ogni tanto per controllare di tenerli a distanza. Giravo tra le strade senza sapere dove stessi andando, notai che altri si stavano unendo al gruppo, sbucavano dalle vie laterali. Ormai le risate avevano raggiunto un livello inconcepibile di terrore. Se mi avessero raggiunto di sicuro mi avrebbero ucciso lentamente, mangiando un piccolo pezzo alla volta, prolungando la mia sofferenza il più a lungo possibile. Iniziavo a sentirmi male, stavo per crollare. In lontananza, mi accorsi di una casa da cui filtrava una luce flebile. Raccolsi le mie ultime energie e corsi come non avevo mai fatto. Prima che potessi bussare, la porta si aprì e una mano mi tirò dentro con forza, per poi richiudere subito la porta, prima che il gruppo arrivasse a prendermi. Pensai che avevo agito d'istinto, che magari quella soluzione si sarebbe rivelata peggiore, facendomi finire in trappola di altri invasati, senza alcuna possibilità di fuga. Quando recuperai fiato alzai la testa e osservai: una dozzina di uomini erano seduti intorno a un tavolo, con tre donne a un angolo. Tante candele illuminavano la sala. 

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