30 LOGAN.

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«Mostriciattolo...» sussurro, la mia voce appena un filo più alta del silenzio che avvolge la stanza.

Apro la porta con una delicatezza quasi paradossale, come se il suo scricchiolio potesse ferirla o disturbare l'atmosfera fragile che aleggia nell'aria. 

Finalmente la incontro per la prima volta dopo quel "figlio di puttana" che mi ha fatto male sul momento ma che, ora, visto quello che ha passato lei, appare come una cicatrice insignificante e quasi ridicola.

È accovacciata sul letto, le gambe tirate al petto e il mento appoggiato sulle ginocchia. La sua posizione è quella di qualcuno che cerca di scomparire, di svanire in un angolo, e mi sorprende la sua apparente fragilità.

Non è da lei mostrarsi così, imbarazzata e indifesa. Ora sembra più un gattino abbandonato, rannicchiato e spaventato, piuttosto che la donna tenace e implacabile che conosco.

«Perkins, da quando in qua hai iniziato a bussare alle porte per chiedere il permesso? Ti hanno finalmente insegnato l'educazione?»

Nonostante il dolore, non perde mai l'occasione di lanciarmi una delle sue frecciatine sarcastiche. La sua corazza di indifferenza è ancora intatta e mantiene al sicuro la sua vera vulnerabilità. E la rispetto per questo, perché nonostante la sofferenza e la delusione, continua a tenere stretta la speranza che le cose possano migliorare.

Lei rimane fedele a se stessa anche quando tutto sembra andare storto, senza tradire il cuore.

A differenza tua.

Sì, a differenza mia, che ho voltato le spalle a quel bambino che desiderava solo amore e comprensione.

Mi appoggio alla porta, la verità è dolorosa e ho bisogno di un supporto che mi tenga ancorato al presente.

«Non continuare a fingere che vada tutto bene, Evans. Hai diritto a sentirti uno straccio, hai diritto a piangere e a sfogarti.» 

Voglio che lei sappia che sono qui non per combattere, ma per offrirle conforto.

« Anche di prendermi a schiaffi, se può aiutarti a stare meglio.» 

«Hai ragione, ma se iniziassi a piangere ora... C'è il rischio che ti allaghi la casa.»

Ha colto il mio tentativo di rompere il ghiaccio, e un sorriso complice si dipinge sul suo volto. È un sorriso che mi rassicura, una piccola apertura nella sua corazza di ferro. Ha abbassato le armi, e mi dà il permesso di avvicinarmi.

«Posso entrare?» chiedo.

I suoi occhi mi fissano con una miscela di stupore e confusione per la mia eccessiva gentilezza. Sono certo che questa non sia la persona che ho conosciuto, che le sue reazioni dimostrano quanto sia difficile per lei accettare il supporto.

Non sono quello che credi, Evans.

Ci pensa qualche momento prima di rispondere, come se stesse cercando le parole giuste. È come se ogni frase fosse ponderata, riflettuta. Non è così invulnerabile come vuole far credere.

«Certo che puoi entrare. Mi stai spaventando con questo tuo atteggiamento carino e coccoloso... Sei sicuro di sentirti bene?»

Non perde un colpo, come al solito.

E ora penso di averla capita: è questo il suo modo di affrontare il mondo, indossare una maschera di ferro mentre, sotto la superficie, è tutta un'altra storia. Chiudo la porta e mi avvicino al letto, mi siedo sul bordo, e osservo meglio. I suoi occhi, ora, verdi con venature dorate che scintillano debolmente alla luce della stanza, mi scavano dentro e mi costringono a confrontarmi con le mie emozioni.

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