I unstable? Of course.

38 8 4
                                    

Lasciai l'Accademia a soli 16 anni.
Ricordo ancora l'adrenalina che mi scorreva nelle vene e l'emozione di aver finalmente lasciato quella casa, sentendomi vittoriosa.
Ma quella vittoria aveva un retrogusto amaro: non avevo idea di dove andare né di come sopravvivere.
Così, iniziai a rubare.
Era l'unica opzione che vedevo davanti a me.
Ovviamente, non durai a lungo.
Finii in prigione, dove rimasi per circa due anni.
Alla fine, però, mi ridussero la condanna, decidendo di trasferirmi in un manicomio dopo essere stata classificata come instabile.
Instabile... Forse non avrei dovuto sorprendermi, dopotutto le voci nella mia testa erano un segreto aperto.
E poi c'è Carol, la mia voce preferita tra tutte quelle nella mia testa.
Lei è diversa dalle altre, più chiara, più presente.
Forse è per questo che, in fondo, ho sempre saputo che la mia instabilità era solo una questione di tempo.

Ma tralasciando questi particolari inutili, dopo tre anni trascorsi in quel posto, finalmente riuscii a uscire e a godermi la libertà.
Una libertà che, ironicamente, mi ritrovai a sacrificare subito dopo.
Iniziai a lavorare come assistente alla psicologa del manicomio, e stranamente, lei ed io diventammo amiche inseparabili.
Dopo due anni, con il suo sostegno, riuscii ad aprire un mio studio, anche se non del tutto legalizzato.
Mi descrivo come una persona senza limiti, una che ama provare di tutto, spinta dalla mia quasi pazzia che, ogni tanto, mi dà il permesso di fare cose che altri non oserebbero.
Il mio studio si trova in un appartamento sulla decima strada.
È un posto spazioso, ben illuminato e curato con attenzione ai dettagli.
E lì, nella grande poltrona nera, ci sono io: i capelli raccolti nel solito chignon basso, una gonna nera abbinata a una camicia bianca impeccabile, e quegli occhiali che porto non solo per scrivere, ma anche per aggiungere un tocco di sensualità al mio aspetto. Qui è dove ho trovato il mio equilibrio, o almeno la mia versione di esso.
Con le gambe accavallate, stavo gustando una di quelle liquirizie rosse che fanno venire l'acquolina in bocca.
La TV era accesa, il telegiornale continuava a scorrere, ma la mia attenzione era altrove. Finché, come un fulmine a ciel sereno, una frase catturò la mia attenzione: "Reginald Hargreeves, il fluente miliardario e fondatore dell'Umbrella Academy, è deceduto ieri sera a causa di un attacco di cuore improvviso."
La liquirizia mi cadde a terra, in un misto di incredulità e shock. Papà... morto? Non ebbi neanche il tempo di afferrare il significato di quelle parole.
In un lampo, la mia mente passò dalla confusione a una gioia travolgente.
Senza pensarci due volte, lanciai letteralmente in aria tutte le mie cartacce, saltando come una folle. Finalmente, dopo anni di attesa, il sogno di una vita stava per avverarsi.
La libertà che avevo sempre desiderato era finalmente a portata di mano.
Anni e anni passati ad aspettare una sua morte improvvisa, e finalmente quel momento arrivò.
Sentivo i miei tacchi risuonare rumorosamente sul pavimento mentre camminavo avanti e indietro, le cartacce sparse ovunque a testimoniare la mia euforia incontrollata.
Il mio fiato era diventato affannoso per i saltelli di gioia, il cuore che batteva forte nel petto.
Era il mio momento glorioso, quello che avevo atteso per tanto tempo.

Ma tutto si interruppe bruscamente quando sentii bussare alla porta.
Ancora scossa, mi fermai, l'adrenalina che si mischiava con un'improvvisa tensione.
Con un respiro profondo, aprii appena uno spiraglio della porta, facendo attenzione a non rivelare il caos che regnava nel mio ufficio.
Per fortuna, dall'altra parte c'era solo una mia cliente, lì per la sessione pomeridiana.
La sua presenza mi riportò alla realtà, e mentre cercavo di recuperare una parvenza di calma, mi preparai a indossare di nuovo la maschera professionale, nascondendo il tumulto che aveva appena scosso la mia giornata.
La sera arrivò presto, e con un mazzo di chiavi in mano e varie cartelle tra le braccia, mi dirigevo verso casa.
Non era lontano a piedi, giusto il tempo di riflettere un po' sulla giornata.
Il mio appartamento era semplice, ma confortevole: una cucina, un salone, un bagno e una camera da letto.
Nulla di straordinario, ma sufficiente per me.
Con le mani occupate, aprii la porta con difficoltà, entrando in casa con una certa goffaggine. Posai le cartelle sul tavolo del soggiorno, buttai i tacchi in qualche angolo e, con una matita, raccolsi i miei capelli bruni in un rapido chignon.
Avevo bisogno di una doccia.

L'acqua calda scorreva su di me, quasi come se non mi toccasse veramente, mentre nella mia testa le voci continuavano a parlare di papà, come un'eco persistente che non voleva svanire.
Cercavo di lasciarle andare, di non pensarci, ma erano sempre lì, un ricordo costante.
Uscii dal bagno avvolta in un asciugamano bianco, i capelli ancora legati, e con un'unica voglia: dormire.
Ma quando i miei occhi si posarono sul comodino accanto al letto, notai qualcosa che non c'era prima.
Una lettera, con le mie iniziali incise in oro su una busta di un bianco latte puro.
Non avevo idea di come fosse arrivata lì, ma sapevo che qualunque cosa contenesse, non sarebbe stata una buona notizia.
Non persi tempo e aprii la lettera.
"Luther?" Pensai, vedendo il nome di Numero Uno all'inizio del messaggio.
Perché avrebbe dovuto scrivermi dopo sette anni di silenzio?
I miei occhi scorrevano velocemente sulle parole, fino a fermarsi su un dettaglio che non mi aspettavo: il funerale di papà si sarebbe tenuto domani sera.
Davvero? Un funerale per quel mostro?
Tipico del cocco di papà, pensai con un misto di incredulità e cinismo.
L'idea che Luther, sempre il più devoto e leale, organizzasse un tributo a quell'uomo mi sembrava l'ennesima prova della sua cieca fedeltà.
Ma più leggevo, più mi rendevo conto che, volente o nolente, quel richiamo al passato non potevo ignorarlo.
Strappai la lettera con rabbia, lasciando cadere i pezzi sul pavimento, e mi infilai sotto le coperte, cercando disperatamente la pace.
Chiusi gli occhi, sperando che il sonno mi portasse via, ma quella pace durò poco.
Uno dei miei attacchi stava arrivando, inesorabile.
Le voci nei miei sogni si facevano sempre più forti, rimbombando nella mia testa come un tamburo, trasformando il dolore in un mal di testa lancinante, come se il cervello fosse ridotto in poltiglia.
Le voci erano tutte su papà: alcune mi esortavano ad andare al funerale, altre mi imploravano di restare lontana, mentre altre ancora emettevano urla frastornanti, mescolando tutto in un caos insopportabile.
Con un movimento rapido, aprii il cassetto del comodino e presi due delle mie pillole calmanti.
Le mandai giù, cercando di soffocare quelle voci una volta per tutte.
La mia mente, ormai stordita, cedette finalmente al sonno, ma il sollievo era solo temporaneo, un fragile riparo dalla tempesta che infuriava dentro di me.

La mattina seguente mi svegliai con un dolore alla testa che sembrava volermi far esplodere le vene.
Ogni pulsazione era un ricordo del tormento della notte precedente.
Passai la giornata cercando di combattere quel dolore, ma i pensieri sul funerale non mi lasciavano in pace.
Cosa avrei dovuto fare? Dovevo davvero andare?
Il tempo sembrava scorrere troppo in fretta, e mancavano ormai solo 25 minuti.
L'ansia cresceva dentro di me, stringendomi il petto, mentre il rimorso cominciava già a scavarsi un posto, sapendo che sarebbe rimasto con me per tutta la vita se non fossi andata.
Alla fine, presi una decisione.
Raccolsi in fretta alcune cose, indossai un lungo cappotto nero che mi avvolgeva completamente, e uscii di casa.
I miei capelli, sciolti e scompigliati, ondeggiavano al ritmo del vento freddo e della pioggia battente.
Gli stivali impermeabili erano d'obbligo in quella serata tempestosa.
Chiamai un taxi e durante il tragitto verso l'Accademia, il cuore mi batteva sempre più forte.
Arrivata davanti all'edificio, i miei occhi si fissarono sull'entrata.
Quel portone di ferro sembrava l'ingresso dell'inferno, un varco che mi immobilizzava con il solo sguardo.
Ogni fibra del mio corpo voleva fuggire, ma qualcosa mi teneva inchiodata lì, in bilico tra il desiderio di scappare e il dovere di affrontare ciò che mi attendeva all'interno.
Stavo per girarmi e andarmene, fradicia di pioggia e con il cuore stretto dalla paura di varcare quella porta, quando sentii una mano appoggiarsi sulla mia spalla.
Mi girai di scatto e mi trovai davanti mio fratello, Klaus.
Non lo vedevo da troppo tempo, ma il suo inconfondibile fetore di alcool mi colpì subito, un odore che avrebbe potuto sentirsi a chilometri di distanza. I suoi capelli ricci, scompigliati come sempre, e il suo abbigliamento decisamente... artistico, erano esattamente come li ricordavo.
Lo guardai senza dire nulla, lasciando che un piccolo sorriso incurvasse le mie labbra mentre osservavo il suo sorriso a 32 denti, così disarmante nella sua genuinità.

"Oh, sorellina, da quanto tempo!"

Esclamò, avvolgendomi in un abbraccio così forte da farmi quasi perdere l'equilibrio.

"Hai bevuto, Klaus?"

Chiesi ironicamente, sapendo già la risposta.

"Solo bevuto, Maise?"

Replicò lui con una risata contagiosa, e presto anche io mi ritrovai a ridere con lui.

In quel momento, mi ricordai di quanto mi era mancato parlare con Klaus, della sua libertà, della sua spensieratezza che sembrava sfidare ogni logica. Era come se, anche solo per un attimo, il peso che portavo sulle spalle si fosse alleggerito, grazie a quel fratello che sapeva sempre come farmi sorridere, anche nel mezzo di una tempesta.

The eighth issueDove le storie prendono vita. Scoprilo ora