Mentre andava, i primi ospiti sgusciavano fuori da porte logore lasciate aperte. Quegli infelici gli sfilavano accanto, ciarlando frasi sconnesse come i loro pensieri; accusando l'aria stantia, piagnucolando scuse e fissando il vuoto davanti a loro con occhi slavati simili a biglie.
Il personale era scarno come un osso spolpato da cani randagi e si aggirava apatico per la porzione di edificio ancora funzionante. In effetti lo spazio si era via via andato sempre più restringendo, come un cappio intorno al collo; la struttura cadeva a pezzi e si stava lentamente inabissando, come un relitto sul fondo del mare della noncuranza.
Jim non aveva trovato quel posto, piuttosto era stato quel posto a trovare lui, raccogliendolo come una merda che imbratta il bordo di una strada. Gli aveva messo addosso un camice che odorava di disinfettante e lo aveva accolto nel suo grembo decrepito, ma ancora in grado di generare un posto di lavoro.
Lì Jim aveva finito per arenarsi, certo che il futuro non potesse offrirgli più di così.
Non che fosse un disfattista o un depresso cronico, solo non amava illudersi! Non gli andava giù di prendersi per il culo da solo farcendosi la testa con stronzate sul pensiero positivo, o sul bisogno di porsi degli obbiettivi; il destino gli aveva svuotato le tasche rivoltandolo a testa giù, scrollandolo ben benino fino a fargli sputare fuori anche l'ultimo desiderio.
Era vivo e doveva pur campare, il mondo non si sarebbe di certo fermato a consolarlo o ad asciugargli il moccio, quindi, si era fatto raccattare dalla Casa di Cura e tanto gli bastava.
Lo spogliatoio era una stanza essenziale, quadrata e con gli armadietti di metallo allineati come rigidi soldatini contro le pareti. In fondo c'era una porta scrostata, che una volta aperta rivelava un cesso perennemente puzzolente di piscio e scorregge.
L'anta dell'armadietto di Jim era ammaccata come la faccia di un pugile, e aprirla ogni volta era un terno all'otto. Dentro un'unica stampella con appeso il suo camice, e un enorme cazzo gonfio inciso nella lamiera. Indossava il camice e mollava giacca e zaino nell'armadietto, certo che il mostruoso fallo avrebbe vegliato su di loro.
Lavoro.
Jim tirava su pozze di vomito variopinto, asciugava il piscio che sgocciolava fuori dai pannoloni gonfi come mammelle da mungere, scambiava qualche chiacchiera con i pazienti sordi come campane. Non aveva invece mai legato con i suoi colleghi, in parte anche perché le facce cambiavano spesso; nessuno voleva rimanere a lungo in quel postaccio. Le giovani infermiere, con le unghie laccate, ambivano alle cliniche private, magari capitanante da qualche affascinante medico brizzolato con la smania nei calzoni; i maschi invece reggevano un po' di più. Arraffavano lo stipendio e davano ai pazienti le briciole della loro attenzione, occupandosene con modi sbrigativi e spesso spazientiti, facendo il minimo indispensabile e prendendo il volo non appena se ne presentava l'occasione.
Jim invece permaneva, come il lezzo di disperazione che aleggiava tra quelle stanze, e che si incollava addosso a chi restava abbastanza a lungo da impolverarsene come un ninnolo dimenticato. Non amava quel posto , eppure non riusciva a trovare un solo motivo valido per sfuggirne. Cosa poteva esserci al di fuori di quella gabbia che fosse abbastanza forte da indurlo a desiderare di scappare? A volte mentre accompagnava un vecchio paziente a letto seguendone l'indolente passo strascicato, Jim veniva colto da una profonda paura. Non perché sorpreso dal pensiero della caducità dell'uomo o dalla sua morte, ma più semplicemente da un segreto terrore per quello che essi rappresentavano. Spesso inciampando nei loro occhi acquosi, aveva scorto le schegge dei loro sogni infranti, delle loro vite consumate, la desolante distesa di capillari sanguigni rotti da pianti segreti; ecco. Questo era il motivo per cui Jim spazzava i pavimenti intorno ai loro piedi evitando di sfiorarli, o li accompagnava nelle loro stanze camminandogli alle spalle e poggiando due dita tra le loro scapole per indurli ad avanzare, senza mai veramente toccarli, come temesse di venire contagiato dalla loro desolante assenza di sogni. Jim avvertiva dentro di se la dilagante cancrena che anneriva il suo futuro, sapeva che avrebbe dovuto amputare quella parte di se legata a un passato che non lo mollava, ma non ne aveva il cuore. In quella parte di se, che andava mangiando i suoi anni a venire, Jim sapeva esserci il ricordo dei suoi genitori e nonostante una parte di se stesso lo implorasse di affrontare quel doloroso ma inevitabile distacco, lui tentennava lasciandosi annerire l'anima.
Talvolta durante la notte, mentre cercava un sonno che tardava sempre ad arrivare, Jim sentiva le urla dei vecchi abbandonati nei loro letti, nei loro stessi escrementi. Poteva sentirli piangere e implorare nel buio delle loro stanze. Inevitabilmente cadeva nel profondo e doloroso dubbio che i suoi genitori in punto di morte, nelle loro camere d'ospedale, avessero fatto lo stesso.
Jim non era li quando se ne erano andati.
Il sonno sfuggiva allora.
Rimaneva così ad ascoltare il ticchettio dell'orologio scandire la sua ennesima notte senza sonno, e senza risposte.
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Disco Inferno (#WATTYS2015)
УжасыL'inferno è sempre in ascolto. Trattiene il respiro, fin quando non sente la giusta melodia. La musica può salvarvi... la musica può dannarvi...