9. Memories

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"Sbiancai in volto. Come una scena a rallentatore già vissuta mi sbilanciai all'indietro, cadendo rumorosamente senza emettere un grido. Un'ondata di calore mi avvolse il viso e sbattei contro il pavimento liscio e freddo di pietra levigata. Il dolore stava rapidamente raggiungendo tutto il corpo, ma percepivo ancora quello strano brivido dietro alla nuca di chi sa cosa sta per accadere. Fu come essere immersa nelle profondità di un qualche lago melmoso, i polmoni bruciano e sento sangue caldo scendermi dal naso. Provo a tirarlo via, eppure non riesco a muovere gli arti, il dolore aumenta d'intensità.

La vista si appanna, una figura alta si avvicina lentamente, tenendosi a debita distanza. Miss Elizabeth mi scruta attentamente attraverso le spesse lenti degli occhiali, un ghigno le deforma il volto, facendolo contrarre in una smorfia perfida di chi sa di aver vinto. Il fruscio di una gonna avvisa l'arrivo di un'altra donna, probabilmente Serena. Infatti poco dopo mi si palesa davanti proprio lei, con la camicetta bianca ben stirata e i capelli biondi in una coda perfetta. Gli occhi azzurri si scuriscono un poco, e intravedo una nota di apprensione.

Mi tira su con aggressività, e alla boca viene legato il solito straccetto sporco. Lacrime calde minacciano di cadere, guardo in alto per evitare un'altra punizione dalla Vecchia. Percepisco all'improvviso ogni mia cellula pulsare come impazzita, in un ordine confuso ma conosciuto. Un capogiro mi fa fermare per un momento, socchiudo gli occhi dolorante. Immagino il cielo dalle striature arancio, screziate dal rosso e dall'oro luminoso. Il canto delle rondini propaga in me un senso di pace, interrotto dallo sbattere della porta metallica.

Finalmente piango, perché è così. Non so mai cosa succede veramente, vado avanti. E non mi volto a guardare. A volte mi ritrovo davanti a un muro, altre un fiore dal viola intenso, un tulipano. Perdo conoscenza, raggomitolandomi in uno degli angoli dello stanzino buio.

Mi svegliai per tre volte in quell'oscurità fredda, non sapendo che ore fossero. La prima volta fui in preda al dolore, la seconda alla solitudine e la terza alla malinconia. Altre lacrime salate solcarono il viso stanco, bagnandomi il viso come il lieve tocco di un panno umido tra mani consolatrici. Un vuoto incolmabile nel petto si fece spazio tra le crepe del cuore fragile, facendomi singhiozzare triste.

La solitudine, il secondo giorno si fece sentire prepotente, investendomi in pieno. Al contrario di ieri non piansi più, un velo di rabbia oscurava i pensieri. Perché mi hanno lasciata da sola? Non una parola, non un addio, non una carezza o un abbraccio. Solo una casa vuota, con il ricordo di Natali passati in strada a chiedere ai passanti un pezzo di dolce panettone candito. Mamma mi mandava fuori con vestiti stracciati, a morire di freddo, per far impietosire le persone. Quando tornavo mi diceva sempre di sopportare, presto sarebbe tutto finito. Riesco a toccarmi tremante una guancia, sentendo la sua mano ruvida sulla guancia, il sorriso falso stampato sulle labbra screpolate. Prima di uscire per andare al lavoro metteva sempre un rossetto rosso fuoco, dandomi un bacio sulla guancia e ridendo insieme a me per il segno lasciato. Tornava a casa con dei sacchetti di patatine rubati dal bar dove lavorava, con alcuni lividi sulle braccia.

Io facevo finta di nulla, seppur sapessi che qualcosa non andava per il verso giusto. Papà invece lavorava tutto il giorno a raccogliere i grappoli d'uva, anche se la maggior parte del tempo veniva pagato così poco da non riuscire a prendere l'acqua. Portava però alcuni chicchi d'uva nascosti in una piccola cassetta di plastica, dove avrebbe dovuto tenere i suoi effetti personali, che non ne aveva.

Il terzo giorno fu quello che passò più velocemente, essendomi immersa nei ricordi d'infanzia. Cinnamon era il miglior amico del mondo, un gatto grasso dal manto caramellato e le zampette bianche. Quando d'inverno faceva freddo e io non avevo la coperta veniva fino in camera mia e si stendeva ai miei piedi, mantenendomeli caldi. Passavamo le giornate seduti insieme sulla poltrona grande, quella rossa, a guardare papà nel piccolo giardinetto dietro alla casa intento a piantare dei fiori. L'unico tipo presente era il tulipano viola, al suo lavoro avevano i semi.

A volte capitava che ce ne fossero alcuni anche gialli, ma era un evento raro e inaspettato. Qualche volta lo aiutavo, sporcandomi le mani di terra, e ridendo spensierata. Non avevo mai considerato di essere una bambina fortunata, fino a quando sono entrata in orfanotrofio. Nessuno mi voleva adottare, circolavano finte voci su di me. Una delle tante è che fossi muta, oppure che avessi sempre i pidocchi e non mi lavassi mai. In realtà a casa l'acqua per un bagno o una doccia non c'era, io e mamma nel suo girono libero camminavamo mano nella mano fino alla spiaggia, dove erano presenti le docce libere. La mattina facevo un bagno, lei stava sotto l'ombra di un albero, poi mi prendeva il ghiacciolo al limone e utilizzavamo il bagno. Mamma Meg aveva rubato dal bar una saponetta alla ciliegia, adoravo quel profumo.

La verità è che io non sarei mai stata come gli altri, ero quella abbandonata dalla famiglia"


𝙿𝚛𝚘𝚙𝚑𝚎𝚌𝚢, 𝒊𝒍 𝒑𝒐𝒕𝒆𝒓𝒆 𝒅𝒆𝒍 𝒍𝒊𝒃𝒓𝒐 𝒑𝒆𝒓𝒅𝒖𝒕𝒐Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora