Josh cap. 11 Inquietudine

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Impreco fissando il pacchetto vuoto. Doveva essere solo una sigaretta, sono diventate cinque, poi dieci.

Ho chiuso la videochiamata con Manuel un'ora fa e non mi serve un oracolo per interpretare il suo cipiglio incazzato.

Il mio rapporto era superficiale, lacunoso, privo di sostanza. Non mi ha mandato affanculo solo perché è il mio migliore amico oltre ad essere il mio Capitano in comando, probabilmente questo mi darà un po' di margine, ma non all'infinito.

Dovrei baciare il culo al destino, perché se avessi rifilato queste stronzate a Thompson o a Miller mi ritroverei con un ispettore della Sede attaccato ai coglioni nel giro di due giorni.

Ho passato gli ultimi quarantacinque minuti a fottermi i polmoni e a ricontrollare le immagini del circuito chiuso del Campus, per essere sicuro che non siano rimaste riprese che possano mettere Luce nei guai.

Una fitta bastarda simile al panico mi attanaglia lo stomaco da più di mezz'ora. Ho bisogno di un drink, ma non posso concedermelo.

Devo passare per un diciassettenne perciò niente alcool. Non che farei fatica a trovarne, mi basterebbe bussare alla porta giusta per ottenerne a vagonate, ma preferisco impormi di rimanere lucido.

Chiudo il portatile con troppa foga, sfilo la maglia e stabilisco di eseguire dieci serie da venti flessioni. Tanto per cominciare.

Pompo sulle braccia decretando un ritmo ben preciso, fisso la mente su un dettaglio dello stipite che ho di fronte e mi ci ancoro con forza per isolare le sensazioni che il corpo mi invia.

Venti.

Quaranta.

Sessanta.

Lei si intrufola nella mia testa e la morsa al ventre si stringe, obbligandomi a serrare i denti. Le immagini che mi invadono sono cariche di un'angoscia potente che diventa mia. La percepisco ferita, umiliata.

Non è reale.

L'impudenza del pomeriggio mi sta presentando il conto, con una simpatica proiezione di merdosissime immagini mentali.

Sbuffo e dirigo il pensiero sul movimento degli arti, il bruciore si fa intenso.

Lo cerco, anelo gli spasmi inviati dai miei bicipiti.

Cento.

Centodieci.

Centoventi.

Riduco il tempo di esecuzione, porto il mio corpo allo stremo e costringo il cervello a seguirlo.

Centocinquanta.

Centottanta.

Duecento.

Crollo a terra e cerco di riportare il respiro ad un ritmo regolare, la sensazione di allarme però non si attenua.

Fanculo.

Mi concedo giusto il tempo di darmi una sistemata e inforco il corridoio a passi spediti. Busserò alla sua porta, la troverò viva e vegeta, farò la figura del coglione e tornerò in camera ad eseguire un'altra serie da cento addominali, tanto per ricordarmi da solo quanto sono idiota.

Semplice, rapido, pulito.

Peccato che mi ritrovi davanti alla sua stanza da più di due minuti, senza aver ottenuto nessuna risposta.

Lei non c'è.

Butto un'occhiata veloce all'orologio che segna le undici e mezza.

Ma dove cazzo è a quest'ora?

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