4. - L'angelo di ghiaccio

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SUNDAY

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SUNDAY

Goldwish scende dall'auto. Accelero in automatico sulla manopola del monopattino.

Sesto senso di merda... Curiosità di merda.

Mia. Testaccia. Di. Merda.

Giro l'acceleratore ancora, ma niente. Non parte.

Ritento. È morto. La mia ferraglia ha deciso di abbandonarmi proprio adesso.

No, no, no, no...

Dannazione!

Giro di nuovo la chiave, freno e accelero ancora. Ma nulla.

Intanto Matthew, il bestione senza cervello, e Thiago, il compare idiota, sbattono le portiere della Jeep. Subito scendono anche gli altri sodali della cricca dei Prince.

No, no, no, riparti, forza!

Non contento, il mio mezzo inizia a scoppiettare come una padella piena di popcorn e, inutile dirlo, tutto il gruppo si volta verso lo sfrigolio incessante del motore in panne e il fumo del tubo di scarico.

Il primo a voltarsi è proprio lui, Matthew-grandissimo-stronzo, ovvio. La sfiga ha dieci diottrie per occhio. Non a caso è la fortuna quella bendata.

«Woah, chi abbiamo qui?». Storce metà bocca in un ghigno da sadico bastardo, poi punta verso di me, spavaldo.

Fischietta un jingle che mette i brividi; i compari degeneri, nel mentre, restano nelle retrovie. Si godono lo spettacolo da voyeur morbosi, anche se qui nessuno spoglierà nessuno e nessuno guarderà nessuno, ci possono giurare.

Accenditi, maledetto!

Strattono il monopattino. Sono tentata di salirci sopra e provare la fuga a motore spento. Ma quanto impiegherebbero prima di acciuffarmi? E cosa mi farebbero?

Il loro capo, Drake Prince, non è soprannominato l'Angelo di ghiaccio a caso. È freddo, calcolatore e spietato. Questo è ciò che è diventato. Non oso immaginare di cosa sarebbe capace.

Continuo a girare la chiave, in tilt. Tremo.

«Cosa ci fai da queste parti, Addams? Ci cercavi?». Torna la voce arrapata di Goldwish. Mi strappa via dalle mani il monopattino facendolo carambolare sull'asfalto. Il motore si sgancia. Lui incombe e io mi ritrovo a retrocedere, quasi cado, fino a battere la schiena contro il tronco di un albero, nel verde che delimita la strada. E nessuno fa ancora niente.

Lui non fa niente.

Allora cerco di giocarmi la partita con intelligenza, l'unica arma che ho dalla mia, la sola che non gli appartiene proprio. «Stavo tornando a casa». Prendo tempo, penso a come fuggire.

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