SKYE
Nel frattempo, mi muovevo tra i bambini con naturalezza, ascoltando le loro storie con attenzione e incoraggiandoli a condividere le loro avventure immaginarie. Alcuni mi prendevano le mani, stringendole come se fossero un'àncora sicura, altri mi mostravano i loro disegni o i peluche preferiti, orgogliosi dei loro piccoli tesori.
Gaia, al contrario, non sembrava affatto conquistata da quell'atmosfera. Si agitava tra le braccia di mamma, scuotendo la testa con impazienza. Lo sguardo perso e il broncio pronunciato parlavano chiaro: era annoiata e irritata. «Voglio andare via!» dichiarò, scalciando debolmente. Mamma cercò di calmarla, ma Gaia non ne voleva sapere. Alla fine, mamma sospirò, scuotendo la testa. «Non c'è verso» mormorò, più a se stessa che a noi. Poi ci rivolse uno sguardo severo. «La porto un attimo fuori. Mi raccomando, non fate danni e ascoltate le infermiere.»
Non aspettò neanche una risposta. Prima che potessimo dire qualcosa, era già fuori dalla sala. Alzai gli occhi al cielo. Cosa pensava che potessimo fare? Ballare sui letti? Davvero esagerata. Mi rimisi al lavoro, sorridendo ai piccoli che mi guardavano con occhi scintillanti.
C'era qualcosa di profondamente gratificante nel vedere quei volti illuminarsi di gioia, anche solo per un istante. Il gioco e l'immaginazione sembravano trasformare quel luogo di sofferenza in un piccolo regno di magia. Tuttavia, non potevo ignorare i segnali più sottili: alcuni bambini erano molto più fragili di altri. I loro sguardi stanchi e i corpi esili raccontavano storie di battaglie che nessuno avrebbe mai dovuto combattere. Tra tutti, una bambina attirò la mia attenzione. Indossava una mascherina e aveva occhi grandi e profondi, che sembravano osservare il mondo con una saggezza innaturale per la sua età. Se ne stava in silenzio, con una matita in mano e un foglio sgualcito.
Mi avvicinai a lei lentamente. «Cosa stai disegnando?» le chiesi con un sorriso gentile.
La bambina esitò, stringendo la matita tra le dita piccole e sottili. Poi, con un filo di voce, rispose: «Un unicorno.» Mi mostrò il disegno con un po' di imbarazzo.
«È bellissimo» dissi, sinceramente colpita dalla delicatezza del tratto.
Lei abbassò lo sguardo, ma c'era un accenno di sorriso sulle sue guance. «Vuoi disegnare con me?» chiese timidamente.
«Certo, mi piacerebbe moltissimo» Il mio sorriso si allargò mentre prendevo una sedia per sedermi accanto a lei. Lei mi passò dei pastelli e non mi mancò di notare i tubicini che pendevano dal braccio fragile. L'immagine mi colpì più del previsto. E poi accadde.
Mi bastò sfiorarla per prendere una scossa e nello stesso istante una fitta improvvisa mi attraversò la testa, come un colpo sordo che risuonò nella mia mente. Un ronzio inquietante si fece strada nelle mie orecchie, sordo e inesorabile. La vista si offuscò per un attimo e un'ondata di vertigine mi colpì con violenza, costringendomi a stringere il bordo del letto per non cadere.
La figura della bambina divenne sfocata, le sue parole un eco lontano. Mi sentivo come se qualcosa mi stesse risucchiando dall'interno. Ma non potevo farmi vedere così, non davanti a lei. Dovevo allontanarmi.
Mi distanziai dalla bambina con passi lenti, cercando di mantenere la calma e di mascherare il tremore che iniziava a irradiarsi dalle gambe fino alle mani. Ogni muscolo del mio corpo sembrava pesare il doppio, come se qualcosa mi stesse trascinando verso il pavimento. Il ronzio nella testa si faceva sempre più forte, trasformandosi in un coro di voci angoscianti, sovrapposte, incomprensibili. Mi strinsi le tempie, sperando inutilmente che il dolore diminuisse. Attraversai la sala, barcollando, le immagini dei bambini che mi guardavano confuse si mescolavano come ombre sfocate. Respiravo a fatica, come se l'aria fosse improvvisamente divenuta densa e difficile da inghiottire.
Una volta fuori dalla stanza, il ronzio era diventato un urlo insopportabile. Non più solo un rumore, ma un'onda che mi attraversava il cranio, il petto, ogni fibra del mio essere. Sentivo il mio corpo ribellarsi, la testa che pulsava come se fosse sul punto di esplodere. Qualcosa di caldo e umido mi calò sulla pelle. Passai sopra una mano e guardai, confusa. Sangue. Dal naso, dalle orecchie. La vista mi si sfocò ancora di più, e il panico si fece strada con una forza brutale.
Cosa mi stava succedendo?
Le luci sopra di me iniziarono a tremolare. Prima un piccolo sfarfallio, poi una serie di bagliori intermittenti che sembravano seguire il ritmo del caos dentro di me. I macchinari della struttura impazzirono, emettendo suoni acuti e striduli. Ogni suono era un colpo diretto alle mie orecchie, un'eco devastante che si mescolava con il ronzio. Non ne potevo più.
«Skye!» Archer mi raggiunse, il volto contratto in un'espressione di puro terrore. «Oddio, Skye! Stai perdendo sangue!»
Sentivo la sua voce, ma era ovattata, distante. Le sue parole sembravano venire da un'altra stanza, quasi un sussurro intrappolato sotto un ruggito. Lo guardai, cercando di mettere a fuoco il suo volto. Il panico mi stringeva il petto, come una morsa d'acciaio. Cercavo di parlare, di dire qualcosa, ma le parole morivano prima di nascere. Vedevo Archer agitarsi, ma non riuscivo a capire cosa stesse facendo.
Poi, improvvisamente, una presa forte e decisa mi strinse le spalle.
Mi voltai di scatto, il cuore che martellava selvaggiamente. I miei occhi incontrarono quelli di Rohan. Indossava un camice da medico, il suo viso impassibile ma i suoi occhi erano intensi, fissi nei miei. Parlava, le sue labbra si muovevano, ma non riuscivo a sentire nulla. Lo vidi rivolgersi ad Archer, che annuì rapidamente prima di correre via. Non capivo cosa stesse succedendo, ma la presa di Rohan sul mio braccio si fece più salda. Mi trascinò con decisione, i suoi movimenti rapidi e sicuri. Attraversammo corridoi e scale. Ogni passo era come camminare attraverso un vortice. Le luci continuavano a tremolare sopra di noi, alcune si spegnevano del tutto. L'aria sembrava vibrare, caricata da una tensione elettrica. Ogni fibra del mio corpo gridava, un dolore sordo che si sommava al ronzio e alla confusione.
Quando finalmente uscimmo dall'edificio, l'aria fresca mi colpì il viso come uno schiaffo improvviso. Mi fermai di colpo, incapace di muovermi. L'urlo nella mia mente si spense, lasciando solo un silenzio innaturale, quasi assordante nella sua quiete improvvisa.
Rimasi immobile per qualche istante, con il respiro affannato e le gambe che tremavano ancora. Poi accadde qualcosa che non mi aspettavo. Sentii un'ondata travolgente dentro di me, come una diga che si rompeva. Le emozioni mi sopraffecero, e iniziai a piangere senza controllo. Singhiozzi incontrollabili mi scuotevano il petto, e le lacrime scendevano copiose sul mio viso, lasciando solchi caldi e salati sulla pelle fredda. Non capivo nemmeno perché stessi piangendo. La paura, l'angoscia, il dolore si mescolavano in un vortice confuso che non riuscivo a decifrare.
Rohan era accanto a me, in silenzio. Non cercò di parlarmi, né di fermarmi. Mi lasciò sfogare, senza fretta, il suo sguardo vigile ma non invadente. Ogni tanto, i suoi occhi incontravano i miei, e c'era qualcosa di inesplicabile nel suo sguardo. Non giudicava, non sembrava sorpreso o turbato. Era come se sapesse, come se capisse quel caos meglio di quanto io potessi. E quel pensiero mi fece sentire, per un breve istante, meno sola.
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Storm-Bound Veins
FantasyQuando la nonna di Skye muore, la sua famiglia si trasferisce in una piccola città per essere più vicina al nonno, rimasto solo nella sua vasta proprietà di campagna. Per sua madre, è un'occasione per rafforzare i legami famigliari e prendersi cura...