𝐂𝐀𝐏𝐈𝐓𝐎𝐋𝐎 𝟑𝟕

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SKYE

Il mio petto sembrava sul punto di esplodere. Dentro di me, c'era qualcosa di vivo, qualcosa che si agitava come un globo pulsante, carico e instabile. Ogni volta che sfioravo qualcuno, sentivo quella massa crescere, gonfiarsi, e il malessere diventava insopportabile, fino a bruciare come un fuoco che mi divorava dall'interno.

Il mondo attorno a me sembrava piegarsi e distorcersi, come se la realtà fosse un fragile velo pronto a strapparsi. Quella cosa pulsante dentro di me cresceva come un'entità viva e rabbiosa che mi divorava. Era troppo. Troppo. La mia mente vacillò sotto il peso di quel dolore incandescente, e una parte di me voleva solo cedere, lasciarsi andare, svenire per trovare pace. Ma l'idea di perdere il controllo mi terrorizzava. Non volevo cedere, non potevo. Avevo paura che, una volta persa coscienza, non avrei più avuto l'opportunità di riaprire gli occhi. Il mio respiro si fece più veloce, corto, come se stessi soffocando.

«Parlami... ti prego, parlami...» sussurrai, la voce spezzata e tremante.

Leòpold era davanti a me, inginocchiato nell'erba. Le sue mani erano ferme, a pochi centimetri da me, come se volesse stringermi anche se non poteva. La sua bocca si mosse, e poi la sua voce arrivò, profonda, calda. «Ehi, pulcino, guardami. Respira. Resta con me.»

Quelle parole, quel tono familiare, mi fecero rallentare, anche solo di un battito. Mi aggrappai a quella voce come a una fune che mi impediva di cadere nel vuoto. I miei occhi cercarono i suoi, e per un momento la tensione si allentò.  Ma poi, come una frana, tutto crollò di nuovo. Quel qualcosa dentro di me s'incendiò, un'esplosione di calore e luce che sembrava volermi strapparmi in due. Il mondo attorno a me diventò ovattato, la voce di Leòpold si fece distante, fino a dissolversi del tutto. Non funzionava più. Nulla funzionava più.

Il dolore era troppo. Così vasto da sembrare infinito. Mi sembrava di affogare, come se quell'energia mi stesse mangiando viva. Una sensazione terribile si insinuò nella mia mente: Sto per morire.

Non era una metafora o un'iperbole. Ero certa, nel profondo, che questa sarebbe stata la mia fine. Il mio petto si contrasse in un altro spasmo, e un urlo strozzato mi sfuggì dalle labbra. Mi piegai su me stessa, stringendomi il busto come se potessi tenere insieme i pezzi del mio corpo.

«Skye!» mi chiamò Leòpold, ma io non riuscivo più a sentirlo chiaramente. Le sue mani erano di nuovo davanti a me, esitanti. Un'altra voce, più distante, gridò qualcosa, ma non riuscii a distinguerla. Mi sentivo intrappolata, come se stessi precipitando in un abisso senza fondo. Poi qualcuno si avvicinò. Sentii la sua presenza prima ancora di vederne il volto. Una mano decisa, forte, mi afferrò, sollevandomi come se fossi fatta di carta. L'urlo uscì senza che riuscissi a fermarlo, un suono animalesco, crudo, che sembrava provenire dalle profondità del mio dolore.

«No! Non toccarmi!» gridai, dimenandomi, ma il corpo non rispondeva come volevo. Le braccia erano rigide, le gambe pesanti.

Sentii la voce di Leòpold, arrabbiata, graffiante come un coltello. «Dakath! Cazzo, la stai facendo soffrire!»

Non ero cosciente di cosa stesse succedendo, ogni cosa si riduceva a una cacofonia di dolore e luce. Eppure, tra i singhiozzi e il fuoco che mi consumava, sentii l'aria cambiare. Il movimento, il vento contro il mio viso. Stavamo andando da qualche parte.

Storm-Bound VeinsWhere stories live. Discover now