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Dalla vita alla sopravvivenza, dalla sopravvivenza all'abbandono, v'è un solo passo; scalfito dal soffiare del vento, dal mulinare della polvere che, nell'orlo di un baratro, lamenta imperterrito il mio nome, perché io quel passo compia, cedendo al baratro.

Sono nato, eppure, non ho mai creduto, se non per un solo illusorio istante, di essere stato concepito per poter assaporare questa vita. Poter giacere sul caldo tessuto del proprio mantello, solleticato negli arti che sporgono dai fili dell'erba, socchiudendo gli occhi alla propria stanchezza, alla linfa che ancora scorre nella propria giornata: tagliare come lama le proprie ore di luce, renderle tenebre della notte, disprezzare quel sole che ancora sorge, senza lasciar tregua al mio corpo stremato. Posare le proprie palpebre nel verdeggiante brulicare dei propri occhi, lasciandosi trasportare dal tremolare della fiaccola e dal silenzio che intrappola quella distesa di terreni, come tramonto che al pover'uomo segna fine del giorno.


Non è mai stato facile. Ma in fondo, cos'é la parola facile? Se non si lotta, se non si soffre e non si è un ammasso di carne e sangue scosso e scosso dalla passione, quanto si ottiene dalla vita è inutile. Perché è accessibile ad ognuno, sorretto dai valori o dalla codardia che esso sia, e non si può equivalere ad alcun merito raggiunto in vita dal proprio essere o da quanti ci abbiano preceduto. L'ovvio. Ciò che non sazia un animo trafitto dalla fame, ciò che non placa l'ansimare d'uno spirito, ciò che non concede tregua ad un corpo fervente, che scordato dal proprio fato, necessita di percepire quanto il facile mai potrà dargli.


Quando ora però chiudo gli occhi, non provo nulla di tutto questo. Un leggero brivido sboccia alla base della mia schiena, e strisciando lungo la mia spina dorsale afferra la mia mente fra le sue dita, gelando ognuno dei suoi pensieri; e la mia pelle, ancora sussulta a quella sensazione, a quel flebile calore dell'alba che mi trafiggeva, mentre mi raggomitolavano fra i mattoni cotti, pressato da quelle mura che sembravano restringersi ad ogni mio respiro. Ricordo quando osservavo, in silenzio. Osservavo il solco che il sandalo sgualcito formava ad ogni rapido passo, e li vedevo susseguirsi sul terriccio umido, rincorrendosi ad ogni mio singolo movimento; quando poi, il mio collo era avvolto dalle fiamme per essere stato ricurvo per tutta la notte, stancamente lo sollevavo, immergendo il mio viso nel sole nascente.


Era quello, in fin dei conti, l'unico l'oro che potevamo permetterci. Non mi è mai dispiaciuto: l'uomo che ha davvero non nutre il bisogno di mostrare, perché con ciò che possiede si diletta e ne gode in silenzio, volgendo il proprio pensiero al raggiungimento del prossimo obiettivo, ad ottenere una ricchezza maggiore; come impronte che percorrono una via, la fame dell'uomo si protrae sino al concludersi dell'esistenza stessa, e non è saziata né dal benessere stesso, né dalla temporanea ammirazione altrui, dovuta a quanto si ha, e mai a ciò che si è. Quell'oro, quello che le mie dita mai hanno osato sfiorare, si riflette nel volto degli avidi, nei ghigni che contorcono piccole labbra, nella superficialità di quegli animi, intrappolati fra le catene della loro stessa insulsa ricchezza. Non è altro che specchio dell'hybris umana. L'arroganza, falce dall'uomo stesso sorretta, per il meno nobile dei suoi scopi: se loro credono che io sia un miserabile, che la stringo in un pugno fasciato, fra nocche di sangue e fronte di sudore, per mietere il frutto di un impegno costante e dedito, è perché le loro radici sono già state sradicate dalla lama, lasciando solamente un frutto acido, vulnerabile ad ogni vento, ad ogni sole e ogni tempo. Mutilati i cuori, distorti i pensieri, loro respireranno l'affanno della propria pietà, avvolti nel freddo metallo, mentre io ancor posseggo l'oro dei raggi, il calore della sua carezza, e la luce che sì riflette, ma l'onestà del mio volto, e una terra che mi nutre, e mi sorregge.

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⏰ Ultimo aggiornamento: Jan 09 ⏰

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