2. ... A Pasadena affronti la verità

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Non aspettai Leonard mentre chiudeva l'auto. Mi limitai a sbattere la portiera e a correre al portone. L'inquilino del primo piano lo tenne aperto, notandomi a pochi passi dall'entrata.

Gli sorrisi per ringraziarlo della cortesia e sgusciai all'interno, senza rispondere al suo saluto.

Ero confusa, ero arrabbiata, ero scossa.

La mia agitazione era frutto della confessione di quel stupido bacio, forse.

Corsi per le scale tanto da arrivare col fiatone al quarto piano. Le mie ballerine non mi intralciarono nel salire i gradini ricoperti di moquette scadente.

Spalancai la porta e lo trovai immobile, di fronte al computer spento. La sua altezza lo costringeva a curvarsi in avanti. Appena si rese conto di non essere più solo, si girò verso la porta e con due dita chiuse il cassetto della scrivania.

«Tesoro...» dissi, interrompendomi. Appoggiai la mia borsa sul tavolino e mi avvicinai con cautela a lui.

Mi sentivo un'estranea nel suo mondo fragile.

Tesi le braccia per abbracciarlo e lui non si oppose, come sempre. Del resto, non si era mai spaventato dal farsi abbracciare da me, forse perché non l'avevo mai ferito.

Affondò il viso sul mio seno, messo in evidenzia dalla camicia aderente. Questo gesto da qualsiasi altro uomo avrebbe nascosto malizia, invece sapevo che Sheldon ne era immune. Solo allora notai che stesse singhiozzando.

Mi piegai sulle ginocchia appena si allontanò dal mio corpo e mi abbassai per guardarlo negli occhi.

Erano arrossati, consumati dal pianto.

L'azzurro, che di solito li contraddistingueva, era quasi sparito. La loro luminosità era stata annullata dalle lacrime. Sheldon tirò su col naso, ma non parlò. Era devastato e, vedendolo così, mi sentii anch'io male. Dubitai che qualsiasi donna, dopo averlo visto in tale stato, avesse potuto opporre resistenza nel confortarlo.

«Sheldon, tesoro... non so cosa dirti per farti stare bene,» mormorai, tendendo con i polpastrelli il contorno occhi per asciugargli le lacrime.

«Non dire nulla,» rispose con un fil di voce.

Lo strinsi di nuovo, non sapevo cosa potesse essere più efficace di un abbraccio. Le parole a volte facevano più danni.

«Eccoti, finalmente.»

Leonard aveva appena varcato la soglia del suo appartamento. Avevo sentito in quelle due parole una nota di disapprovazione, non so se contro di me o contro Sheldon.

«Cosa ti succede amico? Cosa hai fatto per essere stato lasciato da Amy?» domandò, superandoci e arrivando al frigorifero.

«Cosa ti dice che sia stata colpa sua?» chiesi io. La rabbia, che mi ero accorta di provare ancora nei suoi confronti, mi faceva interpretare ogni sua frase come un insulto.

«Be', lo dici spesso tu che è sempre colpa di Sheldon...» mormorò, facendo spallucce e aprendo la bottiglina d'acqua che aveva preso dal frigo.

«Smettila! Non vedi che sta male?»

Sheldon allontanò dalle mie braccia e si alzò dalla sedia. Lo seguii con lo sguardo mentre si avvicinava alla cucina, temendo che volesse affrontare il suo amico. In realtà si fermò davanti al mobile per prendere la scatola porta filtri del thè.

"Offrire una bevanda calda al tuo ospite agitato" era la prassi con lui e il fatto che se lo dovesse fare da solo significava che né io né Leonard avevamo pensato che lui ne avesse potuto avere bisogno.

L'impossibile diventa possibileDove le storie prendono vita. Scoprilo ora