Capitolo Sette

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Audrey

La luce del sole filtrava attraverso il tessuto leggero della tenda, mentre una striscia luminosa mi scottava leggermente il lato destro del viso. Tastai con la mano il terreno che mi circondava fino a che non strinsi il cellulare tra le mani. Lo portai davanti agli occhi impastati, cercando di distinguere i numeri che apparivano sullo schermo. Erano le 9.42. Sam doveva essere già in classe.

Mi trascinai ginocchioni verso l'apertura della tenda e tirai giù la lampo che la teneva chiusa. Feci capolino giusto il tempo per accorgermi che stavano passando due agenti della polizia nel sentiero qualche metro più avanti. Ritrassi la testa appena in tempo, perché uno dei due uomini stava per rivolgere lo sguardo nella mia direzione. Pensavo che si sarebbero avvicinati, incuriositi dalla presenza di una tenda da campeggio nel bel mezzo del parco, invece passarono parecchi minuti senza che nessuno intervenisse. Ricacciai fuori la testa, ma questa volta l'area intorno a me era sgombra, eccezion fatta per un paio di piccioni che beccavano qualcosa nel prato.

Disseppellii i picchetti e ripiegai la tenda disordinatamente, spingendola con non poco sforzo nella borsa. Dopo vari tentativi, riuscii ad appallottolarla in modo che vi entrasse senza darmi particolari problemi. La borsa era solo un po' più gonfia del normale, ma non credevo che qualcuno se ne sarebbe accorto.

Camminai a passo svelto sulla ghiaia delle stradine del parco, con il solo rumore dei ciottoli spostati dai miei scarponi a farmi compagnia. Passeggiavo rapidamente cercando di non assumere un atteggiamento eccessivamente guardingo, tentando di rendere il mio sguardo spensierato. Guardandomi intorno distinsi un giardiniere che spostava distrattamente un tagliaerba in un'aiuola sulla mia destra. Mi scorse e mi sorrise. Ricambiai. L'uomo, che non doveva avere più di quarant'anni, continuò a seguirmi con lo sguardo mentre mi spostavo in avanti, con il volto rivolto verso di lui. Dopo qualche secondo distolsi lo sguardo, ma avevo la sensazione che lui mi stesse ancora fissando. Non era una sensazione piacevole, così accelerai il passo e mi avviai verso l'uscita, un vialetto alberato che culminava con un cancello arrugginito. Non capivo il motivo per cui ci fosse un cancello in un luogo che non ne aveva assolutamente la necessità, ma sorvolai e ne oltrepassai i battenti.

Mi ritrovai sul marciapiedi che costeggiava quello che doveva essere il corso principale. Di fronte una signora accompagnava il proprio figlio accanto ad una scalinata, sulla cui cima imperava un possente portone ligneo spalancato. Sulla soglia si accalcavano parecchi ragazzini, ingobbiti sotto il peso degli zaini che gravavano sulle loro spalle. Sarebbe piaciuto anche a me andare a scuola, quel giorno. Quel giorno come tutti gli altri a seguire.

Mi scossi dai miei pensieri e mi avviai verso il quartiere residenziale. Mentre passeggiavo notai due uomini che parlavano di ippica in modo parecchio acceso. Probabilmente sarebbe scoppiata una rissa di lì a poco e l'idea di rimanere a godermi lo spettacolo mi sfiorò insistentemente. Era già tardi però, quindi ripresi a camminare.

Sull'altro lato della strada attirò la mia attenzione un uomo vestito di scuro, un berretto nero che gli copriva la testa, la visiera che gli oscurava il volto. L'unica parte visibile era il mento coperto da una barbetta rada di un colore molto simile al biondo. Per scorgere questi particolari rimasi troppo tempo ad osservarlo, ma non parve accorgersene: rimase nella sua posizione, immobile contro il muro del palazzo, un piede contro quest'ultimo e l'altro a sorreggere la sua figura apparentemente muscolosa. C'era qualcosa di familiare in lui, ma non mi diedi il tempo di rifletterci e proseguii.

Le villette a schiera erano silenziose nella loro perfetta uguaglianza. Qualche casa si differenziava per il colore con cui i proprietari avevano ritinteggiato l'esterno, ma erano tutte egualmente sagomate. Riconobbi immediatamente quella degli Everston e mi recai verso l'abitazione.

Una settimana prima avevo ascoltato una conversazione dei genitori di Sam in cucina: la madre sarebbe andata in un ambulatorio medico a sottoporsi a uno di quegli esami di cui non m'importava nulla. Purtroppo non avevo avuto il tempo di scoprire l'orario della visita, ma ero a conoscenza del fatto che si sarebbe tenuta di mattina.

Cercai all'interno della borsa la chiave cromata che avevo sottratto dallo zaino di Sam quando se lo lasciò cadere dalle spalle alla fermata dell'autobus. In quell'occasione non mi aveva nemmeno notata, era troppo preso dai suoi pensieri.

Infilai la chiave nella toppa, sperando che non gli avessi rubato quella sbagliata. La girai e la serratura emise uno scatto metallico, segno che quella era la chiave giusta.

Aprii la porta facendola leggermente cigolare. Guardando alternatamente la cucina e la rampa di scale che sovrastava l'atrio, mi avviai verso la cassettiera del soggiorno. Avevo visto la madre che sistemava alcuni documenti in quel mobile, guardandoli con circospezione. Dovevano essere quelli che stavo cercando.
Mi misi a frugare all'interno del primo cassetto e non trovai nulla, se non una rivista contenente ricette da un programma chiamato Le delizie di Jenna. A giudicare dal dolce scomposto in copertina, non dovevano essere proprio delle delizie.
Tentai a scavare in quello più in basso, trovandovi un paio di cuffie con i cavi tranciati. Perché le conservavano se ormai erano inservibili?
Provai con il terzo. Era l'ultimo: se non fossero stati lì, avrei dovuto tentare altrove e non so se sarei riuscita nella mia impresa. Avrei mandato tutto a donne di facili costumi. Non sono una persona volgare, suvvia!
Spostai varie cianfrusaglie, quando alla fine trovai un doppiofondo di cartone, dipinto con lo stesso color mogano del mobile. Me ne accorsi perché la consistenza del cartone è di gran lunga diversa da quella del legno. Mi spiace signora, ma dovrebbe applicarsi di più quando nasconde dei documenti segretissimi di cui nessuno dovrebbe mai scoprire l'esistenza. Questo fu più o meno il mio primo pensiero.

Afferrai il plico richiudendo il cassetto, facendo attenzione a mettere in ordine ogni cosa. Risalii la rampa di scale in cerca della camera di Sam, che non mi fu difficile individuare. La porta - dello stesso colore del mobile in soggiorno - si aprì verso l'interno senza emettere rumori. Mi addentrai nella stanza, mi guardai intorno. Il pavimento era disseminato di oggetti di vario tipo: tagliaunghie, libri e un pupazzetto di Yoshi. Adoravo Yoshi. Mi costrinsi a non raccoglierlo e mi avvicinai al letto. Era piuttosto grande per una persona sola, ma non ci badai e mi ci sedetti. Alzai il cuscino e vi infilai il fascicolo sotto, facendo sporgere un angolo, di modo che si accorgesse della sua presenza.

Mi guardai ancora intorno, in cerca di qualcosa che appartenesse alla vita di Sam, ma non c'era assolutamente nulla. Non un poster, non una fotografia. Solo quegli oggetti ammassati per terra. Questo già mi diceva che non era proprio un maniaco dell'ordine.

Mentre osservavo le pareti, il rombo di un motore mi scosse dai miei pensieri. Mi sporsi verso il vetro della finestra: la signora Everston stava aprendo la serranda del garage. Ero nel panico. Cosa avrei dovuto fare? Uscire dalla porta principale? Avrebbe potuto vedermi, era proprio lì di fianco. Uscii sul pianerottolo guardandomi attorno, quando scorsi la porta della camera da letto. Spalancai la porta e la richiusi dietro di me. Nel silenzio tombale che regnava poco prima nella casa si udì lo scampanellio delle chiavi. La serratura stava girando. Corsi verso la finestra che dava sul lato destro della casa, la spalancai e mi sporsi. Era un bel po' alta. Mi sarei sicuramente fratturata tutte le duecentosei ossa del mio corpo. Ne ero praticamente certa.

Mi gettai.

The SAM PlanDove le storie prendono vita. Scoprilo ora