Sam
La luce al neon sfarfallava, illuminando a intermittenza quella sala intrisa di agonia. Percorsi lentamente il corridoio costeggiato da una fila di sedie, prevalentemente vuote. Trascinavo i passi come se i piedi fossero rimasti incastrati nelle sabbie mobili, facendo davvero poca attenzione al viavai di medici, che talvolta mi lanciavano degli sguardi a metà tra il compassionevole e l'interrogativo.
Alla fine della mia passeggiata, mi decisi ad occupare una di quelle sedie che tutto avrebbero ispirato ad eccezione della comodità. Constatai, mio malgrado, che l'intuito non mi aveva ingannato e che la plastica dura di quei sedili denunciava l'incompetenza del creatore di quelle diavolerie.
Appoggiai i gomiti sulle ginocchia, in attesa di... no, non sapevo cosa attendere. Non so nemmeno se avrei preferito ricevere notizie, buone o cattive che fossero state. Mi crogiolavo in quel vacuo far nulla, mentre tutt'attorno mi gravitava un mondo fatto di angoscia e iniezioni.
Mentre fissavo intensamente la parete di fronte a quella dove avevo appoggiato la testa, sentii dei passi lenti provenire dall'imbocco del corridoio. Li distinsi da tutti gli altri perché quei passi erano accompagnati dal tintinnio di qualcosa di metallico, come di catenelle. Rivolsi placidamente lo sguardo verso l'ingresso, focalizzando la mia attenzione sugli stivaletti scuri che calpestavano il pavimento. Il mio intuito non mi aveva ingannato nemmeno quella volta, perché sulla pelle sintetica delle calzature scintillavano delle catenine metalliche. Sollevai lo sguardo in modo graduale, fino a che non inquadrai il volto di quella persona, l'ultima che avrei potuto immaginare.
Audrey sfilava nervosamente con lo sguardo rivolto verso il basso, mentre teneva le mani nelle tasche anteriori della felpa verde scuro. Quando si accorse che la stavo osservando, sollevò gli occhi e agitò la mano destra per salutarmi. Ricambiai svogliatamente, sperando che proseguisse la sua passeggiata e sorpassasse la mia postazione. Sfortunatamente si fermò poco prima, sedendosi sul posto accanto al mio. Mi osservò per un minuto buono, prima di aprir bocca.
«Allora... come va?»
E come può andare? Mia madre è in non so quale sala operatoria, sottoposta a non so che genere di intervento, ma a casa tutto bene, grazie per l'interessamento.
«Uno schifo.»
Lei annuì, assumendo un'espressione di passiva accettazione. Se era venuta lì per mostrarmi il suo supporto morale aveva fallito miseramente.Dopo un po' che ci scambiavamo sguardi rassegnati, notai sul suo volto una certa indecisione: era come se le parole le soffocassero in gola e non riuscissero ad uscire. Forse aveva bisogno di una spinta e quella situazione mi aveva infuso una buona dose di coraggio, o di sincerità post-traumatica, come dir si voglia.
«Non pensavo ti saresti fatta di nuovo viva. Soprattutto non ora.»
Era esattamente ciò che mi frullava in testa. Come poteva sapere che io ero lì? E poi perché aveva scelto proprio quel posto per ricomparire?
Lei mi scrutò in volto, forse in cerca delle parole giuste da usare.
«Ecco... vedi... ero passata davanti casa tua, per andare... andare da me, a casa mia. Allora avevo deciso di fare un salto da te, per parlare, ma non c'era nessuno. Allora ho incontrato un vicino che mi ha riferito che aveva visto parcheggiare un'autoambulanza nel vialetto e allora... allora eccomi qui.»
Mentre balbettava quelle parole cercavo di seguire il filo del suo discorso, ma mi pareva troppo contorto e decisi di ascoltarne solo quelli che mi parevano i vocaboli più rilevanti.
«Capisco... quindi sai di mia madre...»
«Be', sì, il vicino mi ha accennato qualcosa... come sta adesso?»
«A dirti la verità, non ne ho idea. La tengono rinchiusa lì, senza che io possa sapere né come né quando ne uscirà.»
«Mi dispiace...»
«Audrey, perché sei qui?»
«Io... io volevo aiutarti, starti vicino... confortarti, ecco.»
«Sai che non ci stai riuscendo, vero?»
Le parole mi uscivano dalla bocca senza che io potessi reprimermi. Il mio stato aveva inibito tutti i miei filtri. Non che ne avessi tanti quando ero lucido, ma qualcuno talvolta sopravviveva.Vidi che il volto di Audrey si era rabbuiato dopo le mie parole. Avevo il dovere di rimediare, così mi ritrovai a consolarla. Almeno uno dei due doveva avere successo nell'impresa, che diamine.
«Scherzo, dài. Ti va di parlare di ciò che mi hai detto l'altra volta, al telefono?»
In realtà avevo molti dubbi sul fatto che andasse a me, ma la fase di ebbrezza non mi era ancora passata, quindi lasciai correre.
«Ah, io, be'... scusa, Sam. Non volevo dirtelo in quel modo, forse sono stata troppo brusca...»
Si mordeva il labbro inferiore di continuo mentre parlava, ma sembrava sincera. Dovevo esserlo anch'io, per restituirle il favore di essere venuta a "confortarmi", se non altro.
«Ecco, io... vedi, devo dirti una cosa... io...»
Non trovavo le parole adatte, ma qualcosa mi impedì di continuare.
«Sam! Sam!»
Mio padre mi chiamava dall'altro lato del corridoio, mentre con passo spedito si dirigeva verso di me. Ero ancora occupato ad elaborare il fatto che avesse avuto la premura di presentarsi lì, quando mi si piazzò davanti, simulando uno stato di agitazione e stanchezza.
«Sam, come sta la mamma? Ho lasciato la clinica appena ho potuto.»
Mi stupiva ancora il suo talento per la recitazione: il "lavoro" lo aveva impegnato così tanto da lasciargli dei segni sul collo, come di rossetto... era evidente che il lavoro lo aveva svolto più la malcapitata di turno che lui.
«È lì dentro, la stanno operando. Puoi anche tornare a lavoro se vuoi, non vorrei che questo contrattempo rubi tempo prezioso al tuo dovere di medico.»
Non mi accorsi del tono sarcastico che assunsi finché non sentii uscire le parole dalla mia bocca. Il volto di mio padre si increspò per un momento in un'espressione quasi rabbiosa, per poi tornare apparentemente cordiale quello successivo.
«Ma no, che dici... niente m'importa di più della salute di tua madre, Sam.»
Avrei caldamente dissentito, ma preferii trattenermi. Dopo qualche minuto trascorso a fissare punti indistinti nella sala, mio padre avvistò un dottore — che pareva conoscere, a giudicare dall'espressione amichevole che gli comparve sul viso — e gli si fece incontro come un cagnolino che fa le feste.Io e Audrey restammo in silenzio per un bel po', mentre alle mie orecchie giungevano ovattate le chiacchiere frivole che i due medici si scambiavano. All'inizio avevo addirittura creduto che mio padre volesse chiedere al dottore qualcosa riguardo a mia madre, ma le mie erano solo rosee illusioni.
«Questi padri...»
Audrey pronunciò quelle parole fissandosi gli stivaletti, forse sperando di potercisi immergere e sparire, talmente era imbarazzata. Non sapeva cosa dire, ma non voleva fare la figura dell'asociale, così le risposi nel modo più esaustivo che conoscevo.
«Già...»
Dopo quel monosillabo il silenzio ricadde pesante tra noi, interrotto solo dalle risatine strategiche di mio padre.Immerso tra i meandri della mia mente avevo completamente dimenticato che poco prima che mio padre m'interrompesse stavo spiegando ad Audrey qualcosa che non potevo permettermi di nasconderle, date le circostanze.
«Audrey, ad ogni modo, prima stavo cercando di dir-...»
Fui interrotto dal trillo del cellulare di Audrey, che subito catturò la sua attenzione, sottraendola al mio tentativo di parlarle.
Quando lesse le parole di quel messaggio, contrasse i lineamenti del volto in una smorfia di dispiacere, quasi di disgusto.
«Qualcosa non va per caso?»
Lentamente rilassò i muscoli del volto, mentre iniziava a squadrarmi la faccia come a volerne esaminare ogni punto.
«Audrey, tutto...»
Non ebbi il tempo di terminare la domanda perché vidi Audrey scattare in avanti. Un riflesso condizionato mi spinse all'indietro, ma nulla poteva evitare l'inevitabile. Il suo volto si avvicinò pericolosamente, riducendo a poco più di un centimetro la distanza fra i nostri nasi. Per un momento ci guardammo negli occhi: io con uno sguardo a metà tra lo spaventato e l'agitato, lei con un atteggiamento flemmatico riflesso nelle pupille.
Stavo per chiederle cosa diavolo le fosse preso, quando inspirò rumorosamente dal naso una grande quantità d'aria e la ricacciò, come se si stesse preparando ad affrontare un incontro di boxe.
«Audrey, ma che...»
Non feci in tempo a finire che mi ritrovai le sue labbra stampate sulle mie, lasciando che il mio intero campo visivo venisse occupato dal colore della sua pelle.
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The SAM Plan
Bí ẩn / Giật gânSam è un ragazzo 'atipico', come a lui stesso piace definirsi. Spettatore dei continui tentativi dei genitori di nascondere i loro problemi coniugali e di una vita che non gli appartiene, custode di un segreto che ferisce e cura il suo cuore allo st...