Audrey
Non doveva accadere. No. Tutto questo non doveva succedere. È stato così improvviso. Non sapevo cosa fare. Forse sarei dovuta solo fuggire. Ma avrebbe chiamato qualcuno. Dovevo fare qualcosa. Ho dovuto. Ma non dovevo. Cazzo.
In preda a dolori lancinanti mi lanciai in strada, sperando che nessuno notasse nulla di strano. Cercai di affrettare il passo mentre le ginocchia davano segni di cedimento e mi mantenevo il braccio sinistro con l'altra mano. La strada era quasi deserta, mentre i raggi del sole scottavano i graffi che mi ero procurata con la caduta, rendendoli ancora più brucianti.
A fatica mi addentrai nel vicolo buio e solitario dove c'incontravamo di solito, mentre tiravo fuori il cellulare. Non riuscivo a tenere ferme le dita, prese da un tremito incontrollabile provocato dall'indolenzimento delle articolazioni. Digitai senza nemmeno pensarci il codice per la chiamata rapida e avvicinai il telefonino all'orecchio. Bip. Uno squillo. Bip. Due. Bip. Tre. Riagganciò. Sapevo di aver appena firmato la mia condanna, dato quello che mi aveva raccomandato di non fare, ma non ce l'avrei fatta senza un aiuto.
Arrancai verso la parete in fondo, vicino alla quale c'era un quadrato di cartone consunto e tutto sudicio. Con un dolore quasi straziante, avvicinai il più lentamente possibile il sedere al cartone, con qualche gemito di agonia e tremando come una foglia. Appoggiai la schiena cautamente contro la parete, sperando che quel posto non fosse stato già occupato da qualcun altro. Non erano proprio dei galantuomini lì dietro, c'avrei di sicuro rimesso la pelle se avessi fatto qualche sgarbo a qualcuno, soprattutto per le condizioni in cui versava la mia salute.
Cercai di rimanere vigile, per quanto me lo permettessero la stanchezza e la mancanza di energie. Concentrai la mia attenzione verso lo sbocco del vicolo che dava sulla strada, poco trafficata perché era circa ora di pranzo. All'angolo c'era una piccola tavola calda, da cui provenivano certi profumi che sicuramente non incoraggiavano ad intraprendere una dieta. Nonostante cercassi di assaporare con il pensiero ciò che veniva cucinato a qualche metro da me, il mio palato era ancora invaso dal gusto metallico del sangue. Mi toccai il labbro inferiore con un dito e constatai che stavo sanguinando anche da lì. Eppure non sembrava che mi fossi conciata così male dopo aver sopportato l'impatto con il pavimento.
Ancora tremante e dolorante, vidi una figura scura svoltare l'angolo. Le palpebre iniziarono a cascarmi contro la mia volontà e la luce parve farsi ancora più flebile. Deglutii più volte, in attesa che mi si parasse dinanzi il suo volto e mi sputasse in faccia qualche sgradevole rimprovero, come suo solito. In fondo mi voleva bene, lo sapevo. Sì, era così. Non poteva non essere così, dico bene?
Mi ci ero quasi abituata e non so nemmeno il perché. Forse perché era l'unica via di fuga. Forse perché era destino. Forse sarebbe stato meglio se fossi rimasta. Forse sarebbe stata la stessa merda in ogni caso.«Ma come cazzo ti sei conciata?»
Avrei dovuto dirglielo o lo avrebbe scoperto da sé.
«Non volevo, te lo giuro... è stato un incidente, volevo solo che non dicesse nulla a nessuno...»
«Di chi stai parlando?»
«Di N-Norah...»
«Norah?! Che c'entra lei, adesso? Dimmi subito cosa cazzo hai combinato!»
«Io... io ero di sopra, stavo sistemando i documenti, c-come mi avevi detto tu... però poi è tornata lei, in anticipo... e io... be', io mi sono gettata dalla finestra che dava sul giardino posteriore, solo che... che non ce la facevo ad alzarmi, ero troppo malridotta... così mi sono seduta e ho aspettato che passasse, ma non passava, mi faceva un male cane, avevo lividi dappertutto, oltre che...»
«Vai avanti.»
Il suo tono non era dei più accomodanti.«E... e poi è uscita lei, Norah, con un sacchetto... stava per aprire la pattumiera, quando mi ha vista appoggiata al muro e mi ha chiesto chi fossi... io non ho risposto, come mi avevi detto, così mi... mi sono alzata, o meglio, ho cercato di reggermi in piedi e di scappare, ma lei... lei mi ha afferrato il braccio e insisteva nel voler conoscere la mia identità, così io... io...»
«No, non puoi aver fatto una cazzata simile. Non puoi.»
Nel suo tono non c'era più solo rabbia, ma c'era anche qualcosa come della disperazione mista a tristezza.«Ho dovuto, io non volevo, però non potevo fare altro... era in un mare di sangue!»
Le lacrime iniziarono a rigarmi le guance, mentre la vista mi si faceva distorta e acquosa. Lo sentii imprecare nei momenti in cui i singhiozzi non mi scuotevano tutta, rendendomi ancora più agonica. Lo sentii gridarmi contro, mi diceva che era stanco dei miei piagnistei e che dovevo smetterla. Avrei voluto, anche solo per accontentarlo, ma il mio corpo non me lo consentiva.«Smettila! SMETTILA, CAZZO!»
Lo sentii armeggiare tra le cose nel suo zaino, simile al mio. Asciugandomi gli occhi bagnati dal pianto, vidi che stava imbevendo un fazzoletto con un liquido contenuto in una boccetta di vetro marrone. Vidi il suo volto avvicinarsi sempre più al mio, finché non mi avvolse il naso e la bocca con il fazzoletto bagnato.
Stai buona ora.Il vetro della finestra è rigato dalle gocce di pioggia, il cui ticchettio incessante si sovrappone alle urla provenienti dal piano di sotto. Incrocio le braccia sulle ginocchia, avvicinandomele al viso. Fisso lo sguardo verso un punto indistinto all'esterno, cercando di concentrarvi la mia attenzione, ma con scarso successo. Più tento di non ascoltare, più le parole irrompono distinte e scandite nella mia testa. Parole che sento spesso uscire dalle loro bocche, quasi tutti i giorni. È diventata una routine. Una routine fatta di insulti, schiaffi e spinte. E io non ne posso più. Mi chiedo spesso come faccia a sopportare tutto questo in prima persona, quando persino io sono esausta.
Non che io sia estranea ai suoi sfoghi. Sono solo la preda di scorta.Il battibecco - che in realtà è un eufemismo - imperversa ormai da qualche ora, allo stesso modo della tempesta di pioggia mista a grandine che non vuole smettere di venir giù. Mi sento come se fossi sotto quella tormentosa cascata, colpita ripetutamente dai chicchi di grandine.
«Lurida troia!»
Ancora.
«Perché mi rendi tutto così difficile eh? Fai la brava...»
E ancora.
«Vieni qui...»
E ancora.
«Lasciami!»
E ancora.
Mi alzo dal letto e tendo la mano verso lo scaffale in alto. Afferro la valigetta di ferro con i miei disegni fatti da piccola. Vestiti da sposa. Abiti da sera. I miei sogni infantili non potevano essere più lontani dalla realtà.Dopo aver scavato ancora per un po', trovo il certificato di adozione che è spuntato fuori qualche giorno fa. Provo uno strano sollievo nel guardarlo. Sapere di non essere figlia di quello stronzo. Un vero sollievo.
Per quanto riguarda lei... a lei devo tutto. Per me è mia madre, non c'è nemmeno bisogno di metterlo in dubbio. Che sia stata lei a mettermi al mondo oppure no è irrilevante. Non posso pensare ad una vita senza di lei.Certo, ho impiegato qualche giorno per metabolizzare la notizia, ma non tanto quanto mi aspettassi. Ho mandato giù la pillola piuttosto in fretta.
All'improvviso sento un urlo straziante provenire dal basso, accompagnato da un tonfo sordo. Lascio le scartoffie sul letto e mi precipito al piano di sotto.
Svegliati.
Come?
Svegliati, Audrey.
Una luce bianca acciecante mi abbagliava, mentre la sagoma di un volto familiare mi stava davanti e mi guardava riprendere conoscenza.
«Audrey, devi andare da lui. Ti ho curato le ferite, non dovresti avvertire più quei dolori. È il momento di fartelo amico... o qualcosa di più».
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The SAM Plan
Mystery / ThrillerSam è un ragazzo 'atipico', come a lui stesso piace definirsi. Spettatore dei continui tentativi dei genitori di nascondere i loro problemi coniugali e di una vita che non gli appartiene, custode di un segreto che ferisce e cura il suo cuore allo st...