Capitolo 0 ~ Dio, siamo arrivati

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Il cuore di Argo riprese a battere dopo eoni di completa immobilità. La prima sensazione che avvertì fu la carezza gelida di una goccia d'acqua sulla guancia.

Si trovava paralizzato. Anche se urlava nella sua mente che doveva muovere in avanti la gamba, restava immobile. Nemmeno la sentiva quella parte del corpo. Fu così per altri dieci minuti circa. Dieci minuti orribili. Moriva dall'ansia di uscire, dalla curiosità di sapere se finalmente erano arrivati, ma esisteva in lui anche il lieve timore che qualcosa fosse andato storto. Finalmente riottenne la sensibilità della mano e poté pulire la visiera ricoperta di brina che gli oscurava la visuale, le dita inesperte e insicure come quelle di un neonato.

Una luce abbagliante lo inondò. Non ci credo, siamo arrivati. Il loro viaggio era finalmente giunto al termine.

«Dio!» fu la prima parola che pronunciò. Argo urlò il più forte possibile, ma dalle sue labbra uscì solo un suono roco e indistinto.

«Basil, Basil, siamo arrivati!» Ci riprovò. «Sì, alla faccia di quei bastardi che non ci credevano. Voglio vedere le loro facce quando torneremo a casa.»

Armeggiava con le braccia intirizzite, cercava una via d'uscita da quella che sembrava una vera e propria cassa da morto. Non arrivava nessuna risposta dall'esterno, doveva essere per forza il primo ad essersi risvegliato.

«Diana!» urlò ancora. «Diana!»

Silenzio.

Rise da solo. Ad Argo non importava se nessuno non rispondeva. Erano arrivati, sì. Sarebbero potuti tornare indietro sulla Terra. Chissà quanti anni-luce erano distanti, chissà quanti anni erano trascorsi. Non importava, si sarebbero addormentati ancora.

Non esistevano comandi per uscire. L'anta si sarebbe dovuta aprire da sola una volta che la stanza si fosse riempita di ossigeno. Ma ormai erano passati più di dieci minuti. Argo decise di passare alle maniere forti. Tirò un ginocchiata di fronte a sé, colpendo malamente il freddo metallo. Niente, solo dolore. Ma non si arrese. Ancorò i piedi al pavimento bagnato e spinse con le mani, pregustando il calore della luce sulla faccia. Poi sentì uno scatto e lo sportello si scardinò.

Si lanciò fuori, luce gialla ed accogliente che lo avvolgeva come in un abbraccio. Si inginocchiò, baciò il pavimento e si preparò ad urlare il più forte possibile, come non aveva mai fatto.

L'aria gli si bloccò in gola.

Riprovò ancora, ma sembrava che i polmoni gli fossero rimasti congelati. No, non può essere, rifletté, prima avevo parlato. Si ritrovò disteso a terra, artigliandosi la gola e il petto con le dita, desiderando che i suoi organi di respiro si rimettessero in moto. La testa gli girava, sentiva le vene del cervello che gli scoppiavano. Rotolò su sé stesso, combattendo contro un mostro invisibile. La sua vista annebbiata venne catturata da un abbaglio rosso proveniente da destra. Ossigeno! Dov'è finito l'ossigeno? Non era colpa sua, allora. Il mostro invisibile che lo aggrediva incominciò a sussurrargli che doveva arrendersi. Ma Argo non voleva morire. Dio, ti sento vicino, aiutami tu, pregò. Perché non fai nulla? Ebbe la sensazione di esplodere e di scomparire. Rotolò sul fianco e intravide la cella criogenica da cui era uscito. Rassicurante e invitante, emanava gas freddi e pesanti che strisciavano verso terra. Ma si stagliava enorme ed irraggiungibile. Poi c'era la lunga finestra, accecante, invitante allo stesso modo, ma anch'essa troppo lontana. E poi una porta, piccola e deformata dalle nebbie della sua testa, costruita in freddo acciaio grigio.

Strisciò. Tremando si avvicinò sempre di più a quella che sembrava l'unica salvezza. Convinto di essere prossimo al trapasso, trovò chissà dove una forza incredibile e riuscì a mettersi in piedi, appoggiandosi alla porta. Sei tu, Dio? Argo non ebbe neanche il tempo e la forza di sperare che quell'altra stanza fosse vivibile. Abbassò la maniglia.

Una corrente d'aria investì Argo come un'onda. Aria! Spalancò la bocca, di nuovo al sicuro, mentre quella folata lo trascinava indietro. Spingeva con le gambe, ma anni d'immobilità non gli furono d'aiuto. Centimetro per centimetro avanzava, combattendo con quella preziosa fonte d'ossigeno, che allo stesso tempo si perdeva alle sue spalle, ululando.

Manca poco, manca poco... Argo mise un piede dall'altra parte, poi un braccio, e strisciando nello spazio strettissimo s'infilò come un ladro. Chiuse la porta con un tonfo. La corrente terminò. Argo si appoggiò stremato con la schiena e si lasciò scivolare per terra, mentre realizzava di essere finito in un altro inferno.

Buio quasi totale. Argo sospirò, una nuvoletta di vapore si librò nell'aria. Faceva freddo, parecchio. Era una stanza stretta. Il battito del cuore di Argo cominciò a rallentare. Guardò le pareti, una scrittura fitta e minuta ne ricopriva ogni centimetro. Un tempo dovevano essere argentate, chiare, colore dell'acciaio di cui erano costituite. Ora erano nere, ricoperte dall'inchiostro. Pure per terra era così, una distesa infinita di lettere minuscole. Ma quel posto era un inferno anche per un altro motivo.

Una tuta era adagiata terra. Era sgonfia, non sembrava esserci nessuno al suo interno. Mangiato dal tempo? Quanto ne era passato? Argo si alzò in piedi e si avvicinò a quello che era stato un corpo e poi un cadavere. Osservò da vicino. Una manciata di pennarelli erano sparsi accanto alla tuta, uno spuntava dalla manica vuota. Essa era allungata verso le spalle di Argo, come per indicare qualcosa. Si domandò chi fosse stato a scrivere tutte quelle parole e per quale motivo lo avesse fatto. Argo avrebbe voluto leggerle, avrebbe voluto sapere.

Si guardò attorno. Negli angoli oscuri della stanza s'intravedevano macerie e rottami spigolosi. Alzò lo sguardo in alto, il soffitto era basso e nero. Non si sarebbe mai immaginato così la fine del suo viaggio. Solo, circondato da parole, nella stanza dove era morto un suo compagno. Chi?

Argo seguì la direzione che indicava il pennarello. Puntava esattamente ad un gruppo di parole sul pavimento. Sì, sembrava l'inizio di tutto. Argo si mise a sedere incrociando le gambe e iniziò a leggere.

Missione alla ricerca di Dio. A scrivere è Diana. Sulla nave spaziale l'Angelo sono solo tre i sopravvissuti. Io, Argo e Icaro, la cui cella ho nascosto nel settore ß-12. È lui l'unica salvezza. Io ormai sto morendo, non bevo da un paio di giorni. Spero che il mio corpo possa fare a meno di acqua almeno per il tempo necessario a sviscerare su queste pareti la mia breve storia. Il computer di bordo mostra che sono passati più di 37 milioni di anni dalla partenza. Siamo nel cosiddetto Futuro Remoto.

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pubblicato lunedì 21/09/2015

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