Capitolo 7 ~ Mael Faredòn

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«Basta, ho sete.» Icaro parve deglutire.

«Non c'è acqua qui» disse Argo, ancora con la schiena appoggiata alla porta che li separava.

«Devo fidarmi? Adesso puoi aprirmi.»

Argo si alzò in piedi, ancora dandogli le spalle. Si allontanò come se nessuno avesse parlato.

«Sapevo che non c'era da fidarsi. Starò qui per sempre in balia delle due scelte. Cosa speri di ottenere? Morirai pure tu, là dentro. Idiota.»

«Non morirò, Icaro. Non morirò.»

«E come? Mostrami come farai. Fammi vedere come sopravviverai.»

«Se te lo facessi vedere proveresti ancora a sfondare la porta. Io ho in scacco la tua vita, posso ancora ruotare quella manopola.»

«Sì, come no. Io ho la cella criogenica. Farò bei sogni, sognerò il tuo corpo che si decompone là dentro.»

Aveva ragione, Icaro si sarebbe potuto ibernare. Argo, però, poteva anticiparlo e privare la stanza di ossigeno, vederlo stramazzare mentre allungava le mani verso la cella. Ma sapeva che non ne aveva la forza.

Rimandando le decisioni, si avvicinò alla parete, nel punto in cui aveva smesso di leggere. Cercò le ultime parole che aveva letto. E riprese da là, fuggendo di nuovo nel passato.

*****

Le pareti si susseguirono scure ai miei lati. Ci furono curve, quasi caddi per terra, mentre gli Jhaem mi trascinavano. Quando mi ero ormai abituata all'oscurità, una luce mi penetrò gli occhi, fastidiosa. Chi mi aveva afferrato smise di correre e mi scaraventò in avanti. Mi ritrovai per terra, come ormai ero stata abituata. Mi preparai a morire, a ricevere una pugnalata nella schiena, all'altezza dei polmoni. 'Se osi ancora guardare Hosann-Dahon...' Ma non successe nulla, in realtà. Ebbi anche modo di osservare dove ero stata portata.

Mi trovavo in una stanza modestamente grande. Un tavolo rettangolare, fatto di scura pietra, occupava gran parte dello spazio. Degli scranni lo circondavano, ancorati per terra, quasi fusi col pavimento. Non riuscivo a capire di che colore fosse la pietra, sembrava verde, come la luce che proveniva dall'esterno. Attraversava spesse finestre e veniva riflessa dalla roccia lucida.

Dai miei lati comparvero delle figure, che camminavano con passo elegante, le loro vesti svolazzavano e strisciavano per terra. Si disposero sulle poltrone, come seduti ad una riunione, ed attesero in silenzio con le braccia adagiate sulla superficie del tavolo. Uno di essi mi fece un gesto con la mano, un invito a prendere posto accanto a lui. Mi alzai e cauta mi ci avvicinai. Poi mi sedetti e assunsi la rigida posizione degli altri, tenendo la testa china. Evitai lo sguardo di ognuno, temendo altri rimproveri. Lo Jhaem accanto a me, però, mi sfiorò il mento con le sue dita, invitandomi a sollevare lo sguardo. Approfittai di quella strana concessione per studiare chi avevo davanti.

C'era una donna, i capelli grigi scuri raccolti a cipolla e fermati da un ago blu, simile ad una lancia che affiora da un mucchio di cenere. Non feci in tempo ad osservarla bene in volto. Percepii appena il verde delle sue iridi, quando con uno scatto alzò lo sguardo verso il soffitto. E non lo abbassò più. Aveva pelle chiara e delicata, priva di imperfezioni. Il suo gesto di sdegno era delicato ed elegante.

Fu difficile non cambiare posizione e tenere lo sguardo fermo, privandomi del piacere di osservare la stanza e i presenti. Ruotavo gli occhi, senza farmi accorgere. Alla destra della donna stava un uomo, più anziano. Era appoggiato al suo scranno, completamente rilassato, e aveva gli occhi chiusi, le pupille che si muovevano frenetiche sotto le palpebre, come quando si sogna. Eppure eravamo lì da pochissimo, come era possibile? In quelli che sembrarono cinque minuti, non si smosse, gli occhi continuarono ad agitarsi e lievi increspature perturbarono la sua espressione. Mezzi sorrisi e vene contratte.

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