Capitolo 3 ~ Sognavo la Terra

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Quando mi svegliai le sirene gracidavano e bagliori rossi filtravano nella mia cella. Fuori, a decine camminavano e correvano avanti e indietro. Eravamo arrivati? Pareva di no, tutti erano così indaffarati. Se avessimo davvero trovato Dio, se lo avessero davvero trovato, non avrebbero fatto meglio ad esultare? Se io avessi portato a termine la missione, di certo, non mi sarei preoccupato così come loro. E loro lo erano, con mani sui capelli e sguardi impauriti.

Cosa diamine era successo? Perché non tornavano a dormire? Io volevo riposare di nuovo, là dentro era così fresco e si dormiva divinamente. Ma fuori c'era tutto quel casino e non potei fare altro che aspettare che la cella si aprisse, per capire quale fosse il problema.

Quando l'anta si sganciò, un membro dell'equipaggio comparve dinnanzi a me.

«Levati» dissi ad alta voce, per farmi sentire. «Se non ti levi, questa roba non si aprirà mai.»

L'uomo si spostò, chinando il capo. Uscii, avevo le gambe indolenzite, faticavo a mettere un piede davanti all'altro. «Cosa succede?»

«Ingegnere, in questo settore siamo stati tutti svegliati.» Sollevò il mento, ma arretrò abbassando ancora gli occhi dopo avermi guardato.

«Lo vedo.» Io stiracchiandomi avanzai, lanciando sguardi a destra e a sinistra, osservando uomini muoversi come formiche da un lato all'altro della sala criogenica maschile. «Perché siamo svegli?»

«Questo ci sfugge ancora. Siamo svegli solo noi, i settori χ e ν sono ancora nel criosonno. Nessuna tempesta energetica, nessun fenomeno elettromagnetico all'esterno. Nulla.»

«Be', allora ibernatevi di nuovo tutti e riprendiamo questo dannato viaggio. Stavo sognando la Terra.»

«E la Guerra? Era finita?»

«Non lo so idiota, era un sogno.» Quanto desideravo che non lo fosse, però.

L'uomo arretrò ancora, sviando con gli occhi.

«Allora?» Lo presi per le spalle. «Vai e dì agli altri di ibernarsi. Sogni d'oro.»

Mi voltai, pronto a rientrare nella cella. Quando avevo un piede già all'interno sentii qualcosa toccarmi la schiena. Ancora lui.

«Abbiamo già provato.» Ritrasse la mano. «Non riusciamo a far smettere queste sirene e le celle...»

«Le celle?»

«Non funzionano più. Ero venuto a chiedere aiuto a voi, ingegnere.»

«Io non so come fare.» Entrai nella cella, agganciandomi nuovamente alle cinghie. «Mi occupo del motore. Mi dovevo occupare di quello e basta. Lo sapete bene voi.» Avrei voluto tirargli un pugno sul naso, a quell'uomo. Ma mi trattenni, perché ormai non sarebbe servito più a nulla. Forse non era stato nemmeno lui, ma mi avevano ingannato. Ed era troppo tardi.

«Ingegnere Icaro, non funzionerà. Le celle sono tutte disattivate.»

«Sogni d'oro.»

Chiusi l'anta e mi isolai dal rumore fastidioso, che si volatilizzò come in un risucchio. All'improvviso udivo solo il mio respiro, il battito del mio cuore e le parole ovattate dell'uomo di fronte a me. Restò lì, le sue labbra si muovevano forsennate, ma io chiusi gli occhi. La sua voce non riusciva a sovrastare il vetro massiccio che ci separava, anche perché calpestata dallo squillante altoparlante della sala. L'altoparlante. Stava dicendo qualcosa. Ma io mi ero sigillato all'interno, in attesa del gas soporifero. Che non giunse.

Spalancai gli occhi. Da fuori l'uomo continuava a parlare e iniziò a strattonare l'anta della cella. La voce dell'altoparlante era aquilina, ma non comprendevo le sue parole. Una plafoniera sul soffitto andò in cortocircuito e scintille caddero per terra, mentre le luci d'emergenza smisero di lanciare i loro bagliori rossi intermittenti. L'uomo che ora batteva i pugni sul vetro, ondeggiò pericolosamente quando il terreno sussultò sotto i nostri piedi. Un'altra potente scossa mi scaraventò il capo di lato che, non ancora assicurato alle cinghie, colpì il duro metallo. Quando mi ricomposi, l'uomo era scomparso dalla mia vista. E nessun gas mi aveva fatto ancora addormentare.

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