Capitolo 2
L'incantesimo delle mani d'avorio
"Nuovo giorno, nuova avventura" fu il primo pensiero che ebbi quando aprii gli occhi quel dì novello.
Mi alzai quindi come facevo sempre, trascinandomi lentamente sino al bagno.
Avevo saltato la mia solita tappa alla cucina dove usualmente trangugiavo voracemente la mia colazione.
Quella mattina, infatti, avevo deciso che avrei fatto colazione al bar.
Mi pettinai minuziosamente e svolsi la mia toeletta quotidiana con una particolare precisione, felice di quel piccolo cambio d'abitudine.
E indossata la mia calda amata giacca e il cilindro mio prediletto, uscii.
Il clima non poteva vantare di una grande purezza, essendo nebbioso e spettrale, ma speravo in un miglioramento pomeridiano; detestavo quando il clima non rispettava il mio stato d'animo.
Oh, come ero egocentrico nello sperare che il clima se ne importasse di me.
Arrivato sulla soglia del bar, indugiai qualche secondo.
Avevo fatto bene a tornare? Da solo, per di più?
E se lui non ci fosse stato? O se non mi avesse riconosciuto?
E, questione più importante: mi ero pettinato adeguatamente?
Come mi sentii sciocco, in quel momento.
Insomma, cosa importava a me? Per quale ragione provavo tanto fermento?
Era solamente un cameriere, perché tanta agitazione?
Anche se, pensandoci bene e in maniera oggettiva, aveva un viso davvero grazioso, con quei caldi occhi innocenti, dalla forma di mandorla e il colore del mogano più pregiato, grandi come pianeti, con quella bocca tanto piena e ben definita che pareva disegnata, quel nasino così equilibrato che avrei giurato fosse stato forgiato dalle mani del miglior artigiano... Quanto ero teatrale!
Che esagerazioni, queste riflessioni insensate e inutilmente poetiche.
Il locale di certo si presentava accogliente come l'ultima volta, ma il mio sguardo ignorò i tavolini minuziosamente apparecchiati e gli scintillanti lampadari di vetro cesellato in minuscole gocce che rifrangevano la luce.
Non notai le piccole finestre scure di vetro verde, né le candele spente.
I miei occhi ignorarono tutto ciò, e corsero direttamente al bancone, dove il movimento fulmineo di due mani sottili coperte da guanti a mezza nocca e di una inconfondibile sciarpa beige annodata con maestria attirarono la loro attenzione.
A metà del mio percorso, che allora pareva durare quanto l'odissea di Ulisse, il cameriere intercettò il mio sguardo e mi accompagnò con esso fin in fronte a lui, senza mai smettere di sorridere.
Quando mi fermai, ormai arrivato al bancone, lui mi offrì una visuale ancora più completa dei suoi bianchissimi denti, e mentre appoggiava il mento sulle nocche delle mani, e con voce impacciata, nel tentativo di emulare la voce vissuta di chi avesse ripetuto quella frase centinaia di volte, diceva: «Cosa le porto, Capo?»
A quelle parole, così spigliate e popolari, non potrei fare a meno di lasciare che un risolino sbieco si facesse strada sulle mie labbra.
«Gradirei un french toast, grazie. Oh, e anche un tè, per favore!»
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