IV: La cura pt.2

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Ho passato il pomeriggio nel letto della grande infermeria a cercare di dormire, ma continuava a vibrarmi dentro un'agitazione che mi impediva di prendere sonno. Ogni volta che chiudevo gli occhi, mi si formava in mente l'ultima scena del film e una zaffata di carne putrida bruciata mi toccava le narici. Ho cercato di ragionare su quello che avevo visto, ma era come se non riuscissi ad esprimere un giudizio al di là del dire c'erano un delinquente pestato, un esercito in azione, dei cagnolini e un tipo arrostito vivo. Punto. Se provavo ad andare oltre, mi prendeva subito un forte mal di testa e perdevo la concentrazione. Riuscivo (e riesco) soltanto a pensare ai miei sentimenti di fronte a quello spettacolo, senza oltretutto essere in grado di fare chiarezza. Ancora una volta, in serata, il Dottore mi ha detto che era normale. Anzi, molto positivo.

Il Dottore mi ha convinto a procedere alla seconda seduta subito dopo cena: ha detto che era meglio approfittare del farmaco ancora in circolo nel mio sangue. Per cena mi hanno servito una zuppa dai colori assurdi e dal sapore di cloro. L'infermiera mi ha detto che era una specie di integratore. Finito di mangiare, due infermieri che non avevo mai visto, belli grossi con la testa rasata e un'aria incazzosa, mi hanno ordinato di alzarmi. Ho fatto per sollevarmi e una fitta alle gambe mi ha bloccato. Quando ho reclamato che non riuscivo a muovermi, senza dire nulla, come se se lo aspettassero, hanno tirato via le lenzuola e mi hanno preso uno per i piedi, l'altro dalle ascelle. Il corpo mi faceva malissimo comunque, molto più che al risveglio e non capivo cosa stesse succedendo. Ho urlato: "Basta! Basta mi ammazzate!" ma loro ████████ e continuavano a trasportarmi lungo il corridoio della stanza. sdraiato a mezz'aria in orizzontale con le caviglie sulle spalle di uno, e con l'altro che mi stava strappando i muscoli delle braccia. Chiedevo cosa stava succedendo al mio corpo ma nessuno mi rispondeva. Entravamo in aree dove non ero mai stato, il collo era rigido e fermo e potevo solo guardare il soffitto e le macchie bianche delle teste di medici e infermieri che mi scorrevano ai lati degli occhi. Il soffitto da bianco si faceva gradualmente giallognolo, poi sempre più chiazzato di marrone; le luci al neon erano intermittenti o spente, si faceva via via buio. Giravamo per un labirinto di corridoi con sempre meno gente, avevo l'impressione che l'aria si stesse facendo umida, mi sentivo solo e impotente come quella volta che per gioco io e mio cugino entrammo nella vecchia casa a pochi metri dalla nostra villetta per le vacanze in campagna e il pavimento di legno marcio crollò sotto i miei piedi e io finii nella grande cantina buia: mi sembrava uno spazio nero infinito, guardavo verso quell'unica fonte di luce del buco sulla mia testa e non riuscivo a sopportare il terrore di stare lì sotto come i morti; volevo la luce, l'aria e il calore della giornata estiva di fuori e gli odori della campagna subito dopo la pioggia, ma restavo in quello spazio nero che sembrava chiamarmi lontano dalla luce, dove il tanfo di muffa e il gelo bagnato riempivano il vuoto. Quando calarono la scala a pioli balzai fuori manco fosse stata la bocca di un vulcano, mi gettai tra le braccia dei miei genitori e non avrei voluto mai più mollare la presa del corpo grande e forte di mio padre e quello morbido e sicuro di mia madre. Ora quello spazio buio era tornato ad ingoiarmi: anche gli odori erano gli stessi. Con una manata l'infermiere davanti ha spalancato una grossa porta grigia e l'illuminazione mi ha accecato. Cercavo di lamentarmi ma riuscivo solo ad emettere un grugnito strozzato. Respiravo sempre più a fatica e le lacrime mi bruciavano gli occhi, che non riuscivo più a tenere aperti. Poi mi sono sentito cadere e sono atterrato sul morbido. Mi spostavano le braccia: avevo il senso del tatto ma non potevo muovere un capello. Stavano allargandomi le braccia e legandole con una cinghia. Mi è tornato in mente il ragazzo del film e come lo fissavano alla sedia e un urlo adesso cercava in tutti i modi di uscirmi dai polmoni, di scoppiare fuori. Avevano unito le gambe e le stavano bloccando allo stesso modo, mentre piano la luce calava di intensità. Qualcuno mi ha passato un fazzoletto di stoffa sugli occhi e ho potuto iniziare a distinguere delle sagome davanti a me. Una di loro si è sporta sulla mia faccia. D...Dottore? I tratti si sono fatti via via più visibili. Non era il Dottore. Aveva due guance cascanti e occhi marroni smorti sotto enormi sopracciglia grigie. Mentre mi guardava dall'alto, ho notato il colletto bianco sulla camicia nera. Trafficava con qualcosa, non potevo girare lo sguardo per capire meglio. Due dita si sono avvicinate alla mia fronte e ho sentito qualcosa di liquido. "In nomine Patris..."

Volevo urlare, chiedere pietà, capire perché mi stavano facendo questo. Ma non riuscivo neanche ad aprire la bocca. La testa mi scoppiava, si riempiva di quei pensieri che non potevo esprimere; mi ascoltavo gridare nel cranio che avevo paura, che mi dovevano spiegare cosa avevo fatto per meritarmelo. È stata la prima volta in vita mia che ho provato la paura di morire. È un sentimento molto diverso dalla paura della morte; proprio un'altra cosa rispetto alla paura in sé. Non temevo di smettere di esistere, scivolare in un sonno da cui non mi sarei più risvegliato, andarmene senza aver realizzato i miei sogni, senza essere guarito, tornato a scuola, diventato uno scrittore di successo; non era la fine della mia vita a terrorizzarmi, quanto il momento stesso della morte e quell'agonia che stavo vivendo mentre ero consapevole del suo arrivo. Se non potevo continuare a vivere, volevo farla finita il prima possibile perché quell'ultimo frammento di vita era insopportabile; era come precipitare giù nello scantinato senza atterrare mai, circondato dal buio e dal vuoto. 


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