All'ora di pranzo, un pomeriggio di cinque anni fa, mi sedetti a tavola e iniziai a guardare mio padre. Lui dapprincipio sembrava voler evitare il mio sguardo: muoveva gli occhi nervosamente dal piatto con la lasagna (ancora me la ricordo, come al solito mi ricordo solo le cazzate) al bicchiere d'acqua, poi alla TV accesa alla nostra destra che trasmetteva un film ammutolito via telecomando, per tornare quindi alla lasagna e così via. Io continuavo a fissarlo inespressivo: quel giorno non riuscivo a provare nulla, perciò mi risultava piuttosto facile. Volevo vedere fino a che punto avrebbe continuato a fingere di non aver capito che io avevo capito. La commedia muta andò avanti per quelli che a me parvero almeno dieci minuti, poi d'improvviso abbassò il boccone che stava portandosi alle labbra, assunse un'aria incolpevole e falsamente tranquilla e fece: "Ma non mangi? Che c'è?"
Io continuavo a guardarlo.
Lui ricambiava il mio sguardo neutro con una maschera di vittimismo e confusione ipocrita.
Ad un tratto un piccolo fragore metallico attirò la mia attenzione. Non feci in tempo a girare il collo verso mia madre che già era diventata una scia dai capelli neri ricci e il vestito verde bottiglia che si fiondava via dal soggiorno con le mani premute sul viso.
Tornai a guardare papà: adesso la tranquillità immacolata e la stoica risolutezza vacillavano palesemente.
Alla fine abbassò gli occhi con aria di preoccupata accettazione e disse: "Ascolta, tesoro." L'ultima volta che mi aveva rivolto un appellativo del genere avrò avuto sei, sette anni.
"Ascolta, è solo per il tuo bene. Davvero, fidati. È la soluzione migliore."
Poi cominciò a fissarmi con la tenera speranza di vedermi d'accordo. Ma più stavo immobile ed indifferente più il disagio e la preoccupazione aumentavano nei suoi occhi. Alla fine ebbi pietà di lui e lo trassi via da quell'impasse così poco prevedibile e poco genitoriale.
"Mi faranno del male?" Non volevo suonare come un povero ritardato, ma l'effetto che ottenni fu quello.
"Ma no, ma no, che dici?" Pigolò mio padre, col fare tipico di chi si rivolge ad un figlio piccolo o ritardato. Mi avvicinò lentamente la mano tremante al viso, come se rischiasse di farsela azzannare, e diede un buffetto sulla mia imberbe e brufolosa guancia destra. Non so perché, il calore delle sue dita mi risvegliò dal torpore a-emozionale di quella giornata: sentii uno strano miscuglio di rincuoramento e vergogna, uno stato d'animo che - penso - mi stroncò sul nascere ogni possibilità di incazzarmi con lui e mamma.
Che poi, anche quando avevo trovato i moduli già firmati, quella stessa mattina, nascosti sotto una pila di documenti sulla scrivania di mio padre con la tipica imperizia di chi ha la coscienza sporca e vuole farsi beccare, anche quando avevo realizzato cosa stava per accadermi, non avevo provato nulla. Forse perché ero stanco. Stanco di sentire e pensare, stanco di essere umano. Anzi, lì per lì avevo pensato finalmente questo strazio è concluso! Non desideravo altro che essere preso, portato nei loro centri di raccolta o cliniche di riabilitazione o gulag o come li chiamavano, e farmi strappare via il cervello. Così non avrei più pensato a nulla. Non sarebbe più stata colpa mia. Sarei riuscito a fare il bravo. Non toccai cibo quel giorno, né a pranzo né a cena. Me ne stetti tutto il tempo in camera mia a fissare la collezione di vinili nella scansia centrale della mia grossa libreria. Non dissi né feci nulla manco quando mia madre entrò trafelata e aperto l'armadio cominciò a far crollare giù magliette e camicie e pantaloni e felpe in abbondanza. Per mia fortuna, ebbe la decenza di fingere che non fossi in stanza, perché se mi avesse rivolto la parola non so cosa sarebbe potuto accadere. La paura stava fermentando nel mio stomaco e saliva verso il petto, diffondendosi attraverso gli arti in forma di uno svilente senso di vulnerabilità. La notte fui ridotto ad un sacco di carne innervata pronto per essere prelevato, affettato e servito in tavola, offerto in sacrificio a non so quale idolo del senso comune. Paralizzato nel mio letto, mi figuravo la gente (orribili demoni cartooneschi, caricature di caricature di uomini) che banchettava con la massa tumorale in cui mi ero trasformato, masticando e triturando quel che era stato il mio corpo, facendo scorrere fiumi di sangue e spargendo brandelli di muscoli e grasso e pelle e schizzando il pus sulle pareti e gustandosi pure il nero tessuto incancrenito.
Mi vennero a prendere due giorni dopo. Finalmente ebbi risposta al mio asfissiante interrogativo: si presentavano con un veicolo bianco a metà tra un cellulare della polizia e un'ambulanza, con a bordo paramedici vestiti da paramedici e poliziotti vestiti da gerarchi. Quando sentii il citofono, mentre l'ascensore sussultava fermandosi al piano e i passi si radunavano attorno alla porta e la porta si apriva e il tramestio giungeva verso la mia stanza, durante quel calvario la paura mi fiaccò le gambe e mi fece cadere in ginocchio. Iniziai a fare quel che mi è sempre riuscito meglio: frignare come un pupo. Mentre un infermiere e una guardia mi si avvicinavano, ricordo di aver implorato: "Vi prego, vi prego vengo con voi ma non torturatemi, prima."
L'infermiere mi tese una mano per aiutarmi a rimettermi in piedi e, in modo sorpreso e amichevole, rispose: "Ma di che diavolo stai parlando?"
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Chi è la Polizia del Cervello?
Misteri / ThrillerMeritiamo di avere un'idea se non abbiamo neanche il coraggio di elaborarla per intero nella nostra mente? Il ragazzo protagonista di questo racconto ha un problema che lo rende infelice e pericoloso: non riesce a smettere di pensare. Per questo...