Da ragazzetto mi svegliavo la mattina con un mal di testa insopportabile. Barcollavo fuori dalla mia stanza, entravo in bagno e passavo anche un quarto d'ora con il capo dentro il lavandino, col getto freddo che si schiantava sulla nuca e congelava il dolore. Poi guardavo quella cosa che avrebbe dovuto essere la mia faccia. Mi osservavo giusto per una manciata di secondi: puntare gli occhi verso me stesso era come aprire un forno rovente. Ho letto da qualche parte che se ci guardassimo allo specchio per minuti e minuti, il nostro riflesso inizierebbe a deformarsi: i tratti si allargherebbero fino alla mostruosità e infine sparirebbero in una macchia nera e indefinibile. Vero o no, per me non faceva molta differenza: quello non ero io. I miei connotati mi apparivano alieni e buffi, non sopportavo quella faccetta debole e femminea che mi rivolgeva uno sguardo pietoso e atterrito. Se non avessi avuto paura anche del dolore, avrei preso le forbici dal cassetto del lavandino e mi sarei sfregiato; così la gente avrebbe saputo fin da subito con chi aveva a che fare: la loro commiserazione arrogante avrebbe approfittato di un bersaglio bello grande su cui dardeggiare. Guarda quel matto che cosa si è fatto! Cristo santo, è orribile! Povero ragazzo, chissà quanto deve stare male! Ma io stavo benissimo, maledette teste di cazzo, io stavo benissimo. Siete voi che mi danneggiate, voi attentate alla mia salute mentale col semplice fatto di esistere! La mattina a sedici anni mi guardavo negli occhi vitrei, sentivo la rabbia attraversarmi il collo, le vene che s'irrigidivano fino a farmi male, la testa avviluppata in una sorta di rincoglionimento furioso; mi guardavo per pochi istanti finché la luce non iniziava a sfarfallare e rischiavo di perdere l'equilibrio, allora chiudevo gli occhi e spalancavo la bocca cercando di urlarvi contro, di sputarvi addosso quello che pensavo. Ma che cazzo avete nel cervello? Ma che cazzo dite? Perché non fate funzionare quei dannati neuroni?
Ma l'unico suono che emettevo era un grugnito soffocato, poi scoppiavo in lacrime e vi odiavo per come mi stavate riducendo.
La gente è ripugnante. Odio la gente. Non le persone, però: le persone sono creature meravigliose. La gente è quella cappa tetra che si forma sulla testa degli individui, quando stanno tutti nello stesso luogo come tante macchie di colore che formano un amalgama nauseante che invade le strade, le piazze, le televisioni e Internet. La gente è una grossa vacca stupida la cui stupidità è infinitamente superiore alla somma delle singole stupidità di chi la compone. L'insopportabile convinzione che io ne faccia parte, che io debba essere imparentato con questo enorme clan di cannibali pazzi e deformi, spinge la gente a cercare di inglobarmi, comprendermi, portarmi ad accettare di essere con loro e come loro. Ma io sono nato con un grave difetto congenito: non posso smettere di pensare. E più penso più sento la mia vita ridursi alle mura di questa stanza, poi alla superficie della mia pelle come una corazza di individualità. Non voglio smettere di pensare anche se sono in isolamento, se ho perso e perderò ogni contatto con gli altri, qualsiasi cosa ne sarà di me. Gli altri si allontanano perché hanno perso ogni resistenza contro la gente: ora sono piccole cellule felici della grossa massa adiposa. Sono normali, loro.
Sapevo che sarebbe andata a finire così. Ogni anima salva, dispersa lì da qualche parte nella terra della gente, aveva sicuramente intuito che stava per succedere. Ho sempre detto a me stesso che non avevo paura. Cazzate. Ero divorato dalla paura: c'erano giorni di reclusione volontaria nel silenzio della mia stanza, sdraiato al buio sul letto o talvolta in piedi come una bella statuina; cercavo di sentire la consistenza fisica dei miei pensieri, un groviglio dolorante e vivo. Che cosa potevo farci io, se avevo quei pensieri? Allora la paura dell'ostracismo, della derisione, le migliaia di indici puntati contro di me in mezzo alle risate... la paura della gente mi portava a cercare compromessi. Evisceravo il modo di ragionare che aveva la gente, nel tentativo di trovare punti in comune, comprendere e perdonare gli errori; mi ripetevo che ci voleva indulgenza, che nessuno è immune alle debolezze umane: loro, in fondo, erano umani come me. E se mi ritenevo così superiore, così libero dai condizionamenti che li affliggevano, avrei dovuto riconoscere dignità e rispetto alla loro opinione, così come io stesso le esigevo per primo. E poi che diritto avevo io di pensare di avere ragione? Come potevo ritenere che la mia visione fosse giusta per il fatto che andasse contro il senso comune? Dovevo fare autocritica, scendere dal piedistallo! Ma in quelle occasioni il mio cervello era un vero parlamento con tanto di spalti a semicerchio e moltitudini di voci diverse raggruppate in schieramenti; così all'opposizione filo imperiale rispondeva furente la maggioranza al governo: "Noi di autocritica ne abbiamo fatta fin troppa. Abbiamo rivoltato le nostre opinioni come calzini, le abbiamo sezionate e disarticolate, ripetendo gli esami più e più volte; stessa cosa con le proposte della gente. Il risultato è e sarà sempre lo stesso: la gente non capisce un cazzo, non sa un cazzo ed è tronfia nella propria ignoranza. Non pretendiamo di aver ragione su qualsiasi cosa, ma le posizioni della gente sono deboli, superficiali, largamente basate su asserzioni opinabili prese per verità assolute, argomentate con penose fallacie logiche evidenti anche ad un bambino (tra cui l'idea ripugnante che una cosa è giusta se in tanti la considerano tale) e, soprattutto, infarcite di frasi ad effetto che non significano nulla ma attraggono l'emotività delle masse bovine come la merda con le mosche. Ecco il punto centrale... un attimo, ho quasi finito signor Presidente... ecco il punto centrale: la gente è troppo dannatamente emotiva. Si spaccassero di Valium e forse potremmo cominciare ad avere un dialogo costruttivo. Ora come ora, consideriamo le proposte dei nostri colleghi d'opposizione come moralmente abiette, logicamente deliranti e geneticamente corrotte. E approfittiamo di questa occasione per denunciare lo sfacciato piano dell'opposizione di consegnare la mente e l'anima di questo povero ragazzo alla dittatura del pensiero comune. Grazie, signor Presidente."
Scoppiavano tumulti, i presenti schiamazzavano, insultavano, urlavano, volavano ceffoni e si formavano vortici di psico-parlamentari rissosi nello spiazzo centrale ai piedi degli spalti, coinvolgendo nella lotta anche i poveri stenografi cerebrali. E le cose andarono avanti così finché la gente non si fece sempre più aggressiva, più gretta e convinta di avere un destino manifesto da portare avanti, rosicchiando gradualmente gli spazi di libertà delle singole persone, denunciando come innaturale e inaccettabile ciò che non si conformava alla sua melmosa perfezione gentista. Così crebbe la sua rappresentanza nel mio cervello: i suoi psico-deputati andarono incattivendosi, iniziarono ad usare le maniere forti per intimorire ed imporre, formarono ronde e squadracce, diffusero un clima soffocante di terrore. Infine, la maggioranza non fu più tale. Guardavo continuamente fuori dalla finestra, nell'attesa di vederli arrivare. Li avrei riconosciuti o si sarebbero presentati in borghese? Ogni istante di silenzio, martellato dal cuore in preda all'ansia, logorava la mia forza di volontà frammento dopo frammento. Combattevo una resistenza flebile contro la voglia di cedere alla paura; ma sempre più spesso mi arrendevo e mettevo in dubbio i miei pensieri fino al punto di storpiarli, snaturarli e non sentirmene più autore: riuscivo quasi a non pensare più per nulla, così il mal di testa si attenuava e mi sollevavo in aria comodamente rimbambito. Non era infrequente che mi gettassi sul letto, braccia e gambe allargate, lasciandomi pervadere da quella morbida assenza di ogni individualità. I ragionamenti mi si liquefacevano nel cranio, annullandosi al suon di: "sì ma che ti frega", "sono cose troppo complicate per te", "boh, sarà ma comunque la faccenda molto dubbia e controversa", "c'è ben altro a cui pensare" e in fino dei conti ne ero contento: l'alieno aveva abbandonato la Terra, non ero più un pericolo per nessuno; finalmente coccolato dall'affetto e dall'approvazione collettivi... Eppure, lo spirito di rivolta contro quella condizione non si è mai spento del tutto: alternavo (e alterno) momenti di sana e produttiva quiete zombesca all'ansia di voler affermare me stesso come essere pensante. Ma le cose sono cambiate, dai tempi in cui nella mia testa c'era la democrazia: ho lasciato che la gente iniziasse ad assorbirmi lentamente e ora ne pago le conseguenze. Inibizioni a doppio petto e in stivali neri mi si avventano contro per rischiararmi il cervello, non appena cerchi di metterlo in moto: come un ragionamento inizia ad articolarsi, ad assumere una forma, ad andare libero verso questioni pericolose e prendere inclinazioni sospette, la censura è immediata e stroncante. Basta un assaggio infinitesimale della paura di affrontare l'ira della gente che subito abiuro tutto, perseguitato dall'immagine di bocche deformi e orribili che ridono sguaiate e mi ricoprono di insulti. "AHAHAHAHAH MA CHE CAZZO DICI, COGLIONE? MA CHE HAI NEL CERVELLO? AHAHAH!!! STAI ZITTO CHE NON CAPISCI UNA SEGA! I TUOI GENITORI HANNO ANCHE FIGLI NORMALI? MA CHE VUOI CAPIRE TU? MA TI SEI VISTO ALLO SPECCHIO? GIUSTO UNO CON UNA FACCIA DA STRONZO COME TE POTEVA PENSARE UNA COSA DEL GENERE! AHAHAH!! SEI UN MENTECATTO E NON TI SI INCULA NESSUNO. SCOMMETTO CHE UN MEZZO FROCIO COME TE NON TROVA UNA CHE GLIELA DÀ MANCO SE SI AMMAZZA, ECCO PERCHE' POI TI ESCONO 'STE STRONZATE!AHAHAHAHAHAHAHAH!!!!! TORNA A CASA, RAGAZZINO!!!!!!"
Così torno a concentrarmi su altre questioni (o a non pensare affatto) per paura di sognarmeli la notte. Come mi capitava praticamente sempre quando avevo sedici anni.
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Chi è la Polizia del Cervello?
Misterio / SuspensoMeritiamo di avere un'idea se non abbiamo neanche il coraggio di elaborarla per intero nella nostra mente? Il ragazzo protagonista di questo racconto ha un problema che lo rende infelice e pericoloso: non riesce a smettere di pensare. Per questo...