6° Capitolo

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Cècile aveva sempre voluto avere qualcuno accanto, qualcuno che sapesse chi fosse veramente e che le volesse bene per chi era. Eppure tutte coloro che avevano provato a starle vicino erano morte...a volte pensava che fosse solo colpa sua. Che avesse una sorta di maledizione che facesse allontanare e scomparire le persone a cui voleva bene prima del tempo.

Accarezzó lievemente la cicatrice che fin da bambina disegnava un ghirigoro intorno al suo esile polso, dove la pelle sottile faceva intravedere il reticolato delle vene azzurrine sotto la superfice chiara del derma. Era come una specie di marchio, un ricordo che la legava a l'unica persona della sua famiglia di sangue che non aveva mai conosciuto realmente. E di cui, in realtà, non ricordava nulla.

Forse era stato lo shock o forse era per il fatto che aveva avuto solo quattro anni di vita...eppure non riusciva a ricordare neppure i lineamenti di sua madre.
E ora stavano sbiadendo anche i tratti del volto di Mary...della madre che l'aveva strappata dall'orfanotrofio grigio e spento in cui era stata intrappolata per ben due anni.
Si passò una mano fra i capelli, persa nel suo mondo.

Nel frattempo la lezione era iniziata da quasi mezz'ora e tutti i posti erano stati occupati, tranne quello di fianco a lei, rimasto vuoto come al solito. Non ci dava più importanza ormai, non aveva senso stare male per il semplice fatto di essere diversa.
A volte si guardava nello specchio e si immaginava uguale a tutti gli altri, con degli amici, dei genitori che le volevano bene e magari un ragazzo.

L'unico per cui si fosse mai presa una cotta era stato George Martins, quando aveva dieci anni. E, inutile dirlo, era stata una cotta assolutamente non ricambiata.
Anche perché probabilmente lui non sapeva neppure che lei esistesse...forse solo per l'appello o le verifiche, in cui il suo nome figurava sempre.
Sia nel registro sia nelle interrogazioni programmate.
Cècile ricordò quando sua madre le aveva detto che era speciale, che non doveva cambiare per nessuno, ma doveva imparare a farsi conoscere così mi come si era presentata a lei da piccola. Ma nessuno voleva stare accanto a un fantasma, a qualcuno di cui non si conosceva neppure la voce o il sorriso.

La classe fu pervasa da un trambusto quando dalla porta fece capolinea con un tintinnio di catene un ragazzo dai capelli biondi rossicci scompigliato e la solita faccia enigmatica. Il professore si interruppe squadrandolo attraverso gli occhiali tondi e dalla montatura dorata. Le ragazze si scambiarono occhiate interessate e ridacchiarono per il sorriso sbruffone che assunse il viso angelico dello sconosciuto. I ragazzi lo guardarono incuriositi, altri annoiati, altri ancora infastiditi.
La ragazza dagli occhi persi nella nebbia di un ricordo continuò a fissare fuori dalla finestra, persa nel suo labirinto personale.
Non sentì né la sgridata del professore, né le presentazioni del nuovo arrivato, né le sue battute velate.

Ma sentì l'improvviso silenzio, che si creò dopo tutta quella confusione.

Sentì la mano gentile che le accarezzava la testa.

Sentì la sua vice.

-Hey, Occhi Belli, grazie per avermi tenuto il posto!

Si voltò a guardare quello sconosciuto, che tuttavia si comportava come se si conoscessero da una vita.
Come se fossero amici.
Guardò quelle labbra aprirsi in un sorriso e la sua mano spostare la sedia per poi mettersi a cavalcioni, come se fosse a casa sua, incurante della classe che li guardava e della posizione poco consona all'ambiente scolastico. Le catene appese ai jeans neri sbiaditi tintinnarono contro la sedia, e lui posò la testa su una mano, mettendosi in posizione d'ascolto e alzando un sopracciglio in direzione del professore.

L'uomo era rimasto a guardarlo come il resto della classe.
Vedendosi di nuovo l'attenzione addosso il professore si schiarí la voce e riprese a spiegare un po' impacciato, cercando di recuperare il proprio contegno.
Nessuno si era mai comportato in quel modo nei confronti di quella strana ragazza e di certo lo sguardo freddo di lei non era un incoraggiamento. Eppure quel ragazzo dal viso d'angelo e il carattere da diavolo le si era seduto vicino, parlandole come se fossero abituati a conversare per ore.
Come se si fosse seduta da sola apposta per lui, e non perché gli altri non volevano starle vicini.
E ora se ne stava lì a cavalcioni su quella sedia.
Tranquillo e divertito.

-I colpi di scena mi divertono sempre, sai?- sussurrò, voltandosi a guardarla e facendole l'occhiolino -Tu invece mi sembra che preferisci passare inosservata...o è questione di abitudine?

La ragazza lo osservò, stringendo gli occhi per un istante.
Era stata una domanda che l'aveva punta sul vivo, che aveva riassunto tutta la sua vita in un'unica frase. In un'unica parola.
Abitudine.
Com'è che diceva il filosofo Hume?
Tutte le credenze, tutte le prove di casualità, la stessa esistenza di Dio era costituita dall'uomo, dalle idee di abitudine intrinseca in lui e che rimanendovi attaccati non si poteva quindi avere la certezza di esse.
Non esistevano certezze, solo abitudini, a cui la stessa Cècile si era aggrappata trovandosi a non avere niente in mano, niente.
Nessun amico, nessun genitore, nessun sorriso da poter dare.
Perché nessuno voleva un suo sorriso.
Forse solo lo sconosciuto che ora la osservava con i suoi occhi attenti e disarmanti.

-Abitudine, eh?

, soffiò nella sua mente, mi sono abituata a essere quella che sono; mi sono abituata ad evitare gli sguardi degli altri per non vedere riflesso il mio viso, mi sono abituata a non parlare sapendo che nessuno mi ascolterebbe davvero. Mi sono abituata a camminare senza far rumore in una casa dimora di singhiozzi e ricordi nostalgici, per non disturbare con la mia presenza indesiderata. Mi sono abituata alla solitudine, perché è l'unica cosa che resta, a differenza delle persone.

-Non dovresti permettere agli altri di decidere chi tu debba essere.

Cècile lo guardò, schiudendo appena le labbra.
Come riusciva a farlo, a capire in pochi istanti tutto? A racchiudere le risposte alle sue domande mute in frasi brevi e concise?
Come?
Lui le sorrise con gli occhi caldi che si illuminavano.
-Lo so, sei senza parole, eh?- scherzò, facendole spuntare un sorriso tenue sulle labbra, debole ma sincero -Faccio questo effetto su molti. Nel bene e nel male...
Non sapeva il suo nome, non sapeva neppure il suo cognome, non sapeva il suo gusto di gelato preferito, non sapeva il poeta i cui versi l'accompagnavano nelle notti insonni, non sapeva quale fosse il suo colore preferito, non sapeva nulla di lei.

Ma era come se l'avesse già conosciuta...

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