Capitolo 1

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19 Settembre
- Si può sapere che diavolo hai, stavolta?
- Sono solo stanca, papà. Ho bisogno di stare a casa per un giorno, va bene? 
- Non va bene per niente, Mia. Com'è possibile che tu sia stanca? Sei tornata a scuola solo da due settimane! Come puoi farmi questo? Sono già in ritardo.
- E allora vai!
- Ma non posso andare e lasciarti così... 
- Ho quindici anni papà! Non ho bisogno della balia.
Mia si voltò dall'altra parte, per non farsi vedere in faccia. Aveva di nuovo la nausea. Gli passò accanto sul pianerottolo ed entrò in bagno, sbattendosi la porta alle spalle. Poteva sentirlo, fermo là fuori a pianificare la sua prossima mossa. Mia aveva lo stomaco sotto sopra e di nuovo quel senso di soffocamento che le ostruiva la gola. Aprì l'acqua della doccia, così lui non avrebbe potuto sentirla vomitare nella tazza del water. Persino suo padre non era stupido fino a quel punto. Prima o poi l'avrebbe capito. Ma lei non era ancora pronta per dirlo a nessuno. Nemmeno a Becky. la sua migliore amica. Tanto meno a Will. Ma soprattutto a suo padre. Le facevano male le viscere e sentiva in bocca un sapore amaro. Era la terza mattina che le succedeva. Forse si era presa qualche accidente di virus. Il problema era che Mia aveva anche un ritardo. Ogni giorno controllava e aspettava, ma le mestruazioni non accennavano a cominciare. Più di due settimane di ritardo, ormai. L'unica volta in vita sua che aveva avuto la nausea, non era stata così male. Le era rimasto un senso di vuoto, come una specie di fame. Adesso si sentiva così quasi sempre, anche se sapeva che non avrebbe dovuto mangiare troppo. Non aveva nessuna intenzione di cominciare a ingrassare. Mia chiuse la doccia e si sciacquò la bocca nel lavandino. Ripulì un angolo dello specchio appannato e studiò le proprie labbra grigie, il viso pallido, gli occhi cerchiati di nero. I suoi capelli erano indecenti, simili a code di topo. Becky aveva ragione: avrebbe dovuto darci un taglio netto. Al piano di sotto la porta sbatté, scuotendo tutta la casa. Il motore di un'auto si avviò: papà aveva mollato. Mia scese lentamente in cucina. Rimase immobile a piedi nudi sul pavimento freddo per un'eternità: minuti forse ore, non ne aveva idea. E comunque non aveva importanza, aveva tutta la giornata davanti a sé. Dalla finestra scrutò il giardino, illuminato dal sole del primo mattino. Sentì un barlume di speranza. Forse tutto si sarebbe sistemato: quel giorno le sarebbero arrivate le mestruazioni e avrebbero riportato ogni cosa alla normalità. Fuori, sul prato, la femmina di un merlo aprì a ventaglio le piume della coda. Mia si accarezzò il ventre con le mani. Il mondo sembrava così calmo. Immobile e silenzioso. La casa era in attesa. Ma c'era come un'eco di voci rabbiose, di parole taglienti scagliate come pietre gelide. Che cosa sarebbe accaduto se gli avesse detto la verità? "Non ci vado perché ho la nausea, e ho la nausea e sono stanca perché sono incinta, papà."  Mia immaginò se stessa mentre  sputava fuori quelle parole, che rimbalzavano sul pavimento simili a biglie lucide, ognuna con una spirale colorata intrappolata al proprio interno. Prese una tazzina azzurra dalla credenza e la posò sul tavolo. Mentre riempiva il bollitore, il merlo volò via spaventato. Mia aprì la porta che dava sul retro per far entrare il gatto e fece un paio di passi fuori, sull'erba bagnata. Il freddo le punse i piedi nudi ma fu una sensazione piacevole, che la fece sentire più viva. Continuò a camminare. Attraverso il prato, oltre il cancello, per strada. La porta della cucina era rimasta aperta, dietro di lei, ma Mia non si fermò né si voltò. Non distolse un solo istante l'attenzione dai propri piedi. Dai sassolini minuscoli e appuntiti. Dall'asfalto liscio appena un po' più caldo. Dal fango appiccicoso che le si infilava tra un dito e l'altro. Fu scossa dal rumore di un'auto che arrivava alle sue spalle a velocità ridotta. Mentre la superava, la donna che abitava nella grande casa in fondo al viale le lanciò un'occhiata di traverso. La notizia sarebbe giunta alle orecchie del paese intero nel giro di dieci minuti, ci si poteva scommettere. Strana ragazza. Sapete, camminava per strada alle nove e un quarto del mattino quando invece avrebbe dovuto essere a scuola, e per giunta era a piedi nudi. D'altra parte, ci si poteva forse aspettare altro da una famiglia del genere? E da una che si chiama Mia, poi! Mia colse una mora dalla siepe che fiancheggiava il viale, ma era troppo acerba per poterla mangiare, con i granuli duri e serrati tra loro. Suo padre si raccomandava sempre di non mangiare bacche raccolte lungo il viale. Erano piene di piombo. Veleno. Quando Mia e le sue sorelle erano piccole, papà le portava nei campi a raccogliere le more. Mia odiava dover infilare le mani tra le ragnatele, almeno quanto odiava che le dita le si tingessero di violetto, impossibile da lavare via. Le faceva diventare le unghie color sangue. "Niente sangue. Il sangue non è ancora arrivato." Svoltò l'angolo e vide qualcosa in mezzo alla strada. Un gabbiano morto, con un'ala aperta. Le piume bianche erano imbrattate dall'impronta grassa di un pneumatico. Per un attimo Mia pensò che sarebbe scoppiata a piangere. Le facevano male i piedi. " Il gabbiano è morto. Niente sangue. Qualcosa non va. Il mio corpo. Io aspetto, aspetto e per tutto questo tempo forse c'è qualcosa che sta crescendo dentro di me..."  Mia fissava l'uccello inanimato. Non poteva lasciarlo lì, in mezzo alla strada, ad aspettare di essere schiacciato di nuovo, all'infinito. Anche se era già morto. Ma non poteva nemmeno toccarlo a mani nude. Strappò manciate d'erba e foglie larghe dal ciglio della strada e le fece passare sotto il cadavere per sollevarlo, facendo bene attenzione a non avvicinarsi troppo con i piedi scalzi. Da vicino puzzava. Di pesce. E alghe. Di carne putrefatta. Era strano come fosse grosso e pesante. L'occhio sbarrato la fissava. Mia non provò compassione più di tanto. Era orribile e rivoltante: un corpo bianco e grasso che puzzava di morte. Soltanto per l'ala, un elegante virgola di piume: Mia l'aveva fatto spinta dalla bellezza intensa di quell'ala spezzata. Trascinò l'animale sul ciglio erboso della strada e gli ripiegò delicatamente l'ala contro il corpo. Quando si rialzò sentì le vertigini per un istante. Aveva freddo e quel buco allo stomaco che non le dava pace. Non aveva ancora fatto colazione, e dovevano essere quasi le dieci. Aveva saltato matematica. Era probabile che Becky si stesse chiedendo dove fosse finita e con chi avrebbe passato l'intervallo. E Will? Lui avrebbe concentrato tutti i suoi sforzi nel tentativo di non notare affatto la sua assenza. Seduto insieme a Matt e Liam e agli altri. A discutere di film, atteggiandosi da intellettuali. Facendo finta di non accorgersi delle ragazze di terza, anche se in realtà le spiavano a distanza, seduti ai tavoli dell'aula dieci con i piedi sulle sedie.  Mia si pulì le mani con l'erba bagnata presa dal ciglio della strada. Le rimasero sul palmo delle striature oleose che non sarebbero venute via tanto facilmente. Se le sfregò contro le gambe. Poteva ancora sentire l'odore di pesce e di carne putrefatta, e la nausea la assalì di nuovo. D'istinto imboccò il sentiero che si separava dalla strada e portava giù sulla spiaggia. Non era proprio una spiaggia, giusto un lunga striscia di sassolini e rifiuti consumati dal mare superstite dell'alt marea, che si estendeva quanto il villaggio di Whitecross e oltre. Di solito era deserta. Mia aveva l'abitudine di andarci da sola, ma nelle ultima settimane c'era stata spesso con Will. Il campo accanto al sentiero, appena sopra la spiaggia: era quello il posto in cui era incominciato tutto, in quei primi giorni caldi delle vacanze estive. Mia si sciacquò le mani in mare e si sedette sui ciottoli umidi. I sassi le facevano male ai piedi e dall'acqua soffiava un vento gelido. Mia rabbrividì e si abbracciò le ginocchia, ma faceva troppo freddo per restare. E comunque, non c'era niente da fare da quelle parti. E soprattutto, nessun posto dove nascondersi. 

Un' estate, una vita  Julia GreenDove le storie prendono vita. Scoprilo ora