Didone e Creusa

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I giorni, nell'infreddolita Hogwarts, scorrevano lentamente, quasi per dispetto, come se le preghiere di ogni studente tra quelle mura affinché finisse la lezione, lo so spingessero a fermarsi. La notte scendeva fluida, come un mantello intarsiato di stelle, avvolto al cielo, con calma, ricoprendo di buio l'azzurro, e sempre prima, sempre più presto. Le giornate, come ogni inverno, s'erano accorciate. Ma sembravano più lunghe. Per tutti gli studenti della scuola di Magia e Stregoneria il tempo aveva smesso d'essere una costante, prendendo a rallentare i propri battiti giorno per giorno. O almeno per quasi tutti.
Rose passeggiava nel grande prato brinato, in fretta. Troppo in fretta per i suoi gusti. Come in fretta il sole calava, come in fretta sorgeva dalle montagne. Tutto troppo in fretta. Sentiva vociare il vociare dell'intero castello, vedeva alunni frettolosi fissare i pendoli nelle classi, avvertiva la frenesia pre-Natale attorno a lei. Tutti erano pronti, tutti aspettavano solo il tempo, pronti a rincorrerlo. Lei fuggiva, lei scappava dal tempo. Ma d'altronde li capiva, capiva il loro desiderio di tornare a casa, capiva la voglia di preparare i bagagli, capiva tutto, tranne se stessa. Avrebbe voluto essere felice delle feste, di tornare a casa per il secondo Natale in cinque anni di scuola, di vedere i propri genitori, abbracciare Teddy e Victoire, la nonna, il nonno, gli zii, la vecchissima puffola Arnold, avrebbe voluto stingere tutta la propria famiglia, come faceva da bambina, ma non era possibile. Il Natale aveva smesso da tempo di essere una festa di famiglia, il Natale ormai era un altro alibi per tenere riunioni di lavoro ed incontri con membri del Wizengamot, in casa Weasley. Quell'anno non faceva eccezione, anzi, la madre le aveva già mandato una bella lettera per avvisarla dell'arrivo dei gentili coniugi Roofs, superiori di suo padre, degli illustri signori Harvey, e soprattutto del capo generale del dipartimento Auror assieme al capo del dipartimento di medimagia che seguiva uno dei loro casi, collaborando dalla clinica.
La rossa, prese a camminare più lentamente, dirigendosi passo dopo passo verso il Lago Nero. La biblioteca era decisamente troppo affollata ed aveva bisogno di stare sola, uno di quei bisogni impellenti, improrogabili. Scese rapidamente le scalette di pietra che l'avrebbero condotta al porticino delle barche che permettevano la traversata del lago. Il vento le sferzava il viso, come fosse uno schiaffo, le arrossava le gote, la punta del naso, le rendeva difficile il tenere le palpebre aperte, e le ghiacciava le vene, ma lei amava l'inverno almeno quanto l'autunno, ed amava respirare a pieni polmoni il profumo del gelo.
Sarebbe stato sicuramente il Natale più bello della sua vita, lo sapeva. Era arrivata sulla riva del lago. La terra che calpestava non era più prato, era sabbia ciottolosa, mista a massi, ed erba spesso anche ai muschi, era eterogenea ed in pendenza, ed era giusto una striscia al massimo di cinque, forse sei metri, che fungeva da 'recinto' tra le profonde acque di pece e la foresta Proibita. Rose si voltò giusto un attimo verso la selva. Gli alberi erano vicinissimi l'un l'altro, distanziati con una certa regolarità, quasi fossero stati pensati simmetricamente dalla natura, ad alto fusto, a toccare il cielo con le fronde scure, i tronchi erano spessi, robusti, nerboruti, un intreccio di venature quasi come decorazione, ad abbellire armoniosamente quei legni secolari; il lago, invece, era tutto meno che armonioso, per quanto le onde mosse dal freddo stessero danzando sinuosamente, le acque erano veramente nere, tanto da sembrare densa brodaglia, finte, come lacrime di notte accumulate nel tempo, notte senza stelle, notte di dolore. Soggezione. Ecco cosa provava Rose davanti al quel mare d'oblio. Sapeva di non essere sola, lo sapeva bene, e quella consapevolezza le incuteva un certo senso d'inquietudine, ma di certo, in quel momento, preferiva le sirene ai suoi coetanei, davvero.
Tirò fuori dalla borsa di patchwork il libro che aveva progettato di leggere quel giorno, un libro che aveva letto già centinaia di volte, che l'accompagnava da tanto tempo, che non avrebbe mai smesso di consumare tra le mani, cui pagine sarebbero state voltate e rivoltate più e più volte, cui parole sarebbero sprofondate sotto le mille sottolineature, sempre nuove anche nella loro pallida aurea giallognola: l'Eneide di Virgilio [1].
Gli occhi argentei scorrevano con destrezza lungo le lettere sciupate dagli anni, un gesso da disegno rincorreva le frasi che più le piacevano, perdendosi nel significato nascosto di mille metafore.

Qualche Lentiggine Di TroppoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora