Capitolo 17

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Ero solo un ragazzo, il figlio del fabbro del paese, un piccolo villaggio del sud della Francia, in quel pezzo di terra chiamato Linguadoca.

Mia madre era morta nel darmi alla luce, ed io crescevo con mio padre, che nonostante le difficoltà dei tempi ed il suo carattere indurito dal continuo picchiare su acciai roventi, faceva del suo meglio per darmi quanto più poteva, insegnandomi tutto ciò che faceva parte della sua vita.

Ero il suo unico figlio, e l'amore non ancora spento per sua moglie, mia madre, nonostante gli anni passati dalla sua scomparsa, non gli aveva permesso di avere un'altra donna.

La nostra casa era perciò piena di me, di lui e di tutti i suoi ricordi, che ogni tanto, nelle sere più fredde, condivideva con me, in storie che si vedeva come scaldassero ancora il suo cuore, raccontandomi di una donna che non avevo mai conosciuto ed a cui dovevo invece così tanto, la mia stessa vita.

Io sviluppavo lentamente, non avevo ancora quindici anni, avevo perciò tutto il tempo davanti, ma ero comunque piuttosto mingherlino, troppo, per aiutare realmente mio padre nel suo lavoro, sicuramente pesante, benché facessi anche io del mio meglio, per quanto mi fosse possibile.

Mio padre era un famoso costruttore di spade, ne faceva di bellissime, tanto che molti nobili, anche da città lontane, mandavano i loro inviati ad ordinargliene di nuove, spiegando quanto volevano oppure, a volte, portando delle spade fatte da artisti del legno, che mio padre riproduceva fedelmente, con grande maestria.

Oltre che un grande costruttore di spade era anche un grande spadaccino, la sua passione non era solo rivolta al costruirle ma anche a maneggiarle, cosa che faceva con perizia quasi sovrannaturale.

Questa sua seconda abilità, in vero, veniva tenuta nascosta.

Una volta mi raccontò che era stato soldato, un comandante di soldati, e che si era ritirato in quel piccolo paese a fare il fabbro perché troppo stanco di guerre e morti.

Sin da quando compii sette anni, mio padre iniziò a portarmi nel bosco e cominciò a addestrarmi nell'uso della spada, dapprima per gioco, con due pezzi di legno che somigliavano più a dei giocattoli che a delle armi, poi, a mano a mano che cominciavo a diventare abile, prima con piccole spade leggere non affilate, poi con lame sempre più grandi, per abituarmi al peso ed all'uso.

Nonostante non fossi un gigante, imparavo bene ed in fretta, non ero neppure vicino a batterlo sia chiaro, ma allenarmi tenendo una spada in mano mi piaceva, chiedevo sempre più lezioni e mi esercitavo da solo per molte ore, visto che il mio aiuto in bottega era molto limitato.

Mi rendevo conto di come non sapessi poi granché del passato di mio padre, da dove venisse, dove era cresciuto, che cosa avesse realmente fatto nella sua vita, conoscevo solo il nostro presente e poco altro, ma sapevo che a parte me ed un suo caro amico con cui, seppi, aveva combattuto insieme ed insieme erano arrivati al villaggio, nessun altro conosceva la vera natura di guerriero di mio padre.

Questo strano amico veniva ogni tanto a trovarci, era simpatico, anche lui un ottimo spadaccino, con cui ogni tanto mi divertivo a combattere per gioco, ed un eccellente tiratore con l'arco.

Un paio di volte alla settimana veniva a prendermi ed insieme costruivamo archi e frecce che poi mi insegnava ad usare, tirando dapprima su grandi bersagli statici, poi su centri che faceva dondolare legati ai rami degli alberi, poi ad oggetti sempre più piccoli che lanciava in aria e che io dovevo colpire.

Con gli anni, avevo raggiunto un ottimo livello di abilità, tanto da essere in grado di colpire una lepre anche da parecchie decine di metri di distanza.

A volte avevo trovato mio padre ed il suo amico che parlavano in una lingua a me sconosciuta, e che, mi spiegarono, era solo un dialetto del loro paese d'origine.

Un Angelo di nome GiudaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora